Il Ruolo Terapeutico, 1999, 81: 52-58
Paolo Migone
Vorrei fare alcune riflessioni su un aspetto della tecnica psicoterapeutica per i pazienti borderline formulata da Otto Kernberg, e precisamente sul contratto, a mio parere un aspetto di centrale importanza in questo approccio. Ho esposto queste riflessioni il 15-5-99 a Reggio Emilia ad un convegno, a cui sono stato invitato da Mario Rossi Monti, intitolato "Percorsi di vita o percorsi di malattia? I disturbi di personalità nella pratica dei servizi", organizzato dall'Istituto Banfi, dalla Rivista Sperimentale di Freniatria, e dalla Società Italiana per la Psicopatologia. Gli altri relatori invitati rappresentavano punti di vista diversi: Arnaldo Ballerini, di Firenze, ha parlato dal punto di vista della fenomenologia, Cesare Maffei, di Milano, dal punto di vista della ricerca psichiatrica, Gian Vittorio Caprara, di Roma, dal punto di vista della ricerca psicologica, Antonio Andreoli, di Ginevra, ha parlato della pratica dei servizi psichiatrici, e Antonello Correale, di Roma, della terapia istituzionale di gruppo. Nella mia relazione, che si intitolava "La psicoterapia del paziente borderline: riflessioni sull'approccio di Kernberg", dopo aver presentato brevemente le principali caratteristiche della teoria che sottende all'approccio di Kernberg (le relazioni oggettuali interiorizzate, l'uso della scissione come principale meccanismo di difesa, ecc.), ho discusso essenzialmente due aspetti di questa tecnica: quella che io ho chiamato una qualità "autenticamente psicoanalitica" di questa tecnica (basata sul fatto che il "supporto" non deve mai essere ricercato in quanto tale, ma deve essere un effetto del lavoro interpretativo, cosa questa che a mio parere rivela molto bene l'anima kleiniana di Kernberg), e la tecnica del contratto. Qui, anche per motivi di spazio, parlerò solo di questo secondo aspetto, che, a mio parere, ci permette di fare alcune riflessioni cliniche di estremo interesse. Darò per scontata una conoscenza minima dell'approccio di Kernberg, per il quale rimando, oltre che ai suoi vari libri, ai due manuali di psicoterapia per i borderline, il primo del 1989 [Kernberg O.F., Selzer M., Koenigsberg H., Carr A. & Appelbaum A., Psicoterapia psicodinamica dei pazienti borderline. Roma: EUR, 1996] e il secondo uscito nel gennaio di quest'anno [Clarkin J.F., Yeomans F. & Kernberg O.F., Psychotherapy for Borderline Personality. New York: Wiley, 1999; trad. it.: Psicoterapia delle personalità borderline. Milano: Cortina, 2000; Edizione Internet delle pp. 31-39 del cap. 1: Strategie nella psicoterapia delle personalità borderline: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/clarki99.htm]. Per un inquadramento clinico e storico generale della personalità borderline, rimando al cap. 8 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995, oltre che a due mie rubriche sul Ruolo Terapeutico, n. 55/1990, pp. 30-34, dedicata alla storia del concetto di borderline, e n. 56/1991, pp. 23-26, dedicata agli aspetti psicodinamici. Come sappiamo, il contratto viene considerato di fondamentale importanza in questa tecnica, non a caso chiamata anche, come si vede dal titolo di un libro di Yeomans, Selzer & Clarkin del 1992, un "approccio basato sul contratto" (A Contract-Based Approach). Infatti, dopo la iniziale valutazione diagnostica, e una volta che si è deciso che una terapia di questo tipo è indicata, le prime sedute vengono impiegate per instaurare il contratto col paziente, in una lunga discussione pregna di implicazioni terapeutiche e anche diagnostiche (nel senso che si testa indirettamente anche la correttezza della diagnosi iniziale). Il contratto ha delle componenti generali e altre specifiche per il singolo paziente, nel senso che deve essere cucito su misura a seconda della anamnesi, soprattutto della storia pregressa di tentativi di suicidio, di gesti impulsivi, di ricoveri o di tentativi psicoterapeutici precedenti. Vengono analizzate attentamente le modalità che il paziente ha usato in passato per gestire i comportamenti impulsivi, soprattutto quelli autolesivi e quelli che possono costituire una minaccia al proseguimento della terapia, e vengono prescritte, nei minimi dettagli, determinate azioni che il paziente, se accetterà di intraprendere la terapia, dovrà compiere nel caso si ripresentassero questi momenti di impulsività. Va specificato anche cosa esattamente farà il terapeuta se si presentassero questi momenti, affinché il paziente sappia in anticipo tutto quello che accadrà come conseguenza di determinate sue azioni. Ad esempio si può richiedere al paziente di rivolgersi immediatamente al pronto soccorso, o al medico di fiducia, nel caso non si sentisse del tutto sicuro di non tentare il suicidio o di non saper controllare determinati momenti di impulsività. La figura di riferimento a cui il paziente dovrà rivolgersi non deve mai essere il terapeuta, onde evitare le classiche manipolazioni, e i tempi e i modi di quello che il paziente dovrà fare vanno specificati senza possibilità di fraintendimenti. In questo modo si riesce a neutralizzare quasi completamente il pericolo che il paziente ritenti il suicidio; questo dato è stato già comprovato dalle ricerche, che dimostrano l'abbattimento del numero dei tentativi di suicidio appena si inizia al terapia (meno eclatanti invece sono, allo stato attuale delle ricerche, le prove dei risultati terapeutici complessivi, o almeno essi risultano non troppo dissimili da quelli della terapia cognitivo-comportamentale della Linehan, come pure simili sono i drop-outs in questi pazienti così gravi, circa il 50% entro i primi sei mesi, ma si è ancora all'inizio di vari progetti di ricerca i cui risultati si conosceranno tra alcuni anni). In certi casi di pazienti con una storia di numerosi tentativi di suicidio alle spalle, questi cessano del tutto. Ricordo una paziente, che ci presentò Clarkin (che è lo stretto collaboratore di Kernberg) al corso intensivo di tre giorni sui disturbi di personalità che ho organizzato a Parma nell'aprile del 1997 (vedi la recensione di Rita Sciorato sul Ruolo Terapeutico, 1997/75, pp. 50-51, e il videotape del corso che è tuttora in vendita): questa donna aveva alle spalle una storia di una trentina di tentativi di suicidio, i quali cessarono del tutto appena iniziò la terapia. Non a caso di solito il paziente reagisce con grande rabbia a questa proposta di contratto, prova indiretta che si è colto nel segno, cioè che il paziente ha una organizzazione borderline, cioè è affetto, come prima diagnosi, da un disturbo in asse II (dove nel DSM-IV sono elencati i disturbi di personalità) e non da un disturbo in asse I (dove vengono collocate le sindromi cliniche - per un approfondimento sui DSM e sul DSM-IV rimando all'articolo mio e di de Girolamo su Psicoterapia e Scienze Umane, 1995/4). Bisogna infatti fare molta attenzione a non sbagliare diagnosi nella fase valutativa iniziale, altrimenti questa tecnica potrebbe addirittura nuocere. Se il paziente borderline ad esempio presenta sintomi depressivi, si teorizza che egli non mostra questi comportamenti come espressione di una depressione vera, ma questi sintomi, come ad esempio in modo tipico i tentativi di suicidio, vengono usati come una modalità relazionale che lui ha imparato nel corso della vita a causa di tutta una serie di interazioni patologiche in cui è stato coinvolto fin da piccolo. Infatti, nel caso di una sintomatologia descrittivamente depressiva, vi è una netta differenza tra una depressione in asse I e una depressione in asse II. A prima vista una depressione in asse I può apparire simile a una depressione in asse II (idee di autosvalutazione, di suicidio, ecc.), ma ha in realtà una storia anamnestica ed una sintomatologia completamente differenti. Ad esempio in una sintomatologia depressiva in asse II l'umore depresso non è stabile, coerente al suo interno e della durata maggiore di una settimana, ma vi sono le tipiche oscillazioni, di durata anche molto breve o comunque inferiore alla settimana, in cui compare uno stato non depresso, oppure coesistono, nella soggettività del paziente esplorabile anche nella stessa seduta, aree depressive assieme ad altre aree di cognizione non depressiva, come progetti per il futuro, ambizioni, vissuti completamente diversi e discordanti. Si tratta cioè della cosiddetta "depressione caratterologica " (characterological depression), entità diagnostica completamente diversa dalla depressione in asse I, in genere poco rispondente ai farmaci antidepressivi, con una tendenza cronicizzante, e che tra l'altro, secondo Kernberg, rappresenta una delle indicazioni diagnostiche con prognosi più favorevole se trattata con la tecnica da lui suggerita. Il paziente con una depressione in asse I invece è, potremmo dire, depresso e basta, il suo umore depresso è stabile e coerente, raramente tenta più volte il suicidio, eventualmente lo commette una volta e in modo serio, e inoltre a lui non interessa attirare la nostra attenzione, e a volte neppure chiede il nostro aiuto. Dicevo che in genere non appena il paziente borderline viene messo di fronte alla proposta di contratto mostra una forte rabbia, che può durare molte sedute, ed è importantissimo il modo con cui il terapeuta ben addestrato la sa gestire, in quanto è fin dalle prime sedute che si gettano le fondamenta del possibile successo della terapia. Il terapeuta deve chiaramente evitare di far trasparire un atteggiamento punitivo o moralistico (è il paziente che cerca di trascinare il terapeuta in questo atteggiamento, per poi poterlo accusare - questo è un tipico esempio di proiezione di un oggetto parziale, scisso, presente all'interno del paziente, ad esempio l'immagine di una figura tirannica e punitiva), e deve chiarire, parandosi dalle continue manipolazioni, che il paziente non è obbligato a intraprendere questa terapia se non se la sente di rispettare questo contratto (il paziente fa fatica a capire questa cosa, lui preferisce accusare qualcuno). La rabbia del paziente nasce dal fatto che inconsciamente si rende conto che vengono minate le importanti motivazioni dei suoi gesti manipolatori. Infatti per la formulazione del contratto si utilizza, in modo preciso, una ipotesi sulle fantasie inconsce del paziente, che col contratto vengono neutralizzate completamente, rendendole inattuabili. E' naturale quindi che il paziente si senta frustrato venendo deprivato di una modalità di funzionamento a cui era abituato da anni e che credeva utile. Prima ho detto anche che è di enorme importanza che non si commettano errori nella valutazione diagnostica iniziale, perché se il paziente non ha una diagnosi in asse II, ma ad esempio è affetto da una depressione in asse I, di fronte a questo tipo di contratto potrebbe peggiorare. Dalla sua reazione alla nostra proposta di contratto comunque spesso si riesce a confermare la diagnosi ed eventualmente a correggere il tiro se ci accorgiamo che abbiamo commesso un errore diagnostico iniziale. Molte sono le modalità con cui il paziente mostrerà una resistenza al contratto, e sarebbe lungo elencarle qui. Va sottolineato che il terapeuta deve rifiutarsi di iniziare la terapia se il contratto non viene completamente accettato, altrimenti non avrà più alcuna autorità in futuro, proprio come un genitore non riesce più a tenere la disciplina con dei bambini piccoli se non mantiene le promesse fatte, se non è coerente, se non fa seguire le azioni alle parole. Lo stretto parallelismo tra comportamento genitoriale con i bambini e atteggiamento terapeutico con i borderline viene spesso sottolineato da Kernberg, anche sulla base di alcuni dati di ricerca: in entrambi i casi occorre estrema coerenza, seppure all'interno di una certa umanità, e se si vogliono ottenere determinati risultati il bambino o il borderline devono imparare esattamente quali conseguenze seguiranno a determinate azioni. Un esempio di resistenza al contratto che spesso vediamo nei pazienti borderline consiste nell'arrivare infine a dire, da parte del paziente, che sarebbe disposto a fare le cose che gli vengono richieste nel caso si accorgesse di avere impulsi suicidari (ad esempio rivolgersi al pronto soccorso in modo tale da eliminare ogni pericolo), ma il problema è che non potrà farlo perché semplicemente non riesce ad accorgersene dentro di sé, in quanto l'impulso avviene improvvisamente, senza la minima capacità da parte sua di prevederlo. Il terapeuta deve allora rispondere che se il paziente non riesce a prevederlo, cioè se non riesce a differenziare dentro di sé i diversi stati emotivi, allora purtroppo questa terapia non è indicata per lui. Ma a questo punto non raramente il paziente subito dice che è capace di fare questa operazione, mostrando così indirettamente il suo bisogno di restare in un rapporto, la sua voglia di litigare, potremmo dire, il suo rifiuto di darla vinta al terapeuta, quasi come per spirito di contraddizione. Non dimentichiamoci che questi pazienti per funzionare hanno un forte bisogno degli altri, i quali vengono utilizzati come ricettacolo delle loro proiezioni o identificazioni proiettive. Nei termini che a volte si usano in psicologia, i disturbi di personalità in genere sono alloplastici, non autoplastici, cioè comportano una modificazione dell'ambiente esterno da parte del paziente, che non riesce a contenere dentro di sé la malattia, ma per funzionare deve utilizzare gli altri, cioè il mondo esterno, che in un certo senso diventa una parte del Sé (sempre a proposito di terminologie, si suole dire anche che i disturbi di personalità per definizione sono egosintonici, non egodistonici, cioè essi non sono visti dall'Io, essendone inglobato, essendo in sintonia con essi, mentre una sitomatologia egodistonica è esterna all'Io, in conflitto con un Io che cerca quindi di combatterla). Sono possibili molte varianti al modello di contratto, perché, come ho detto, deve essere cucito sulle fantasie e sui bisogni inconsci del singolo paziente, e deve anche adattarsi alla personalità del terapeuta e alla sua maggiore o minore disponibilità in termini di tempo e di motivazione personale a venire incontro a determinate richieste del paziente. Come curiosità, si può citare una caratteristica del contratto instaurato personalmente da Kernberg coi suoi pazienti, che consiste nel dire che se per caso accade che il paziente compie un tentativo di suicidio, la terapia verrà interrotta e non vi saranno altre possibilità future di intraprendere una terapia con lui, per cui cesseranno del tutto i rapporti tra i due. Questa regole viene spiegata non come una ritorsione o una punizione del paziente, ma semplicemente come indicazione del fatto che in questi casi la terapia non era indicata. Ovviamente è molto importante mantenere fede alla parola data, a qualunque condizione (altrimenti si rischia di rimanere per sempre alla mercé del paziente). Dopo la eventuale interruzione della terapia a causa di un tentato suicidio, il paziente però non verrà abbandonato a se stesso, ma si rivolgerà ad un altro terapeuta, anche dello stesso team, col quale probabilmente starà molto più attento. Questa interruzione della terapia può sembrare crudele, ma a mio parere, se "somministrata" per le giuste indicazioni, può avere un potente effetto terapeutico implicito, e può risultare più efficace di mesi o anni di terapia. Del resto, la tecnica della interruzione della terapia a scopi terapeutici non è nuova (vedi anche la mia rubrica sul n. 68/1995, pp. 41-44, del Ruolo Terapeutico); mi viene in mente anche la tecnica della Selvini e dei sistemici quando comunicano al paziente che per lui "la terapia non è indicata", e lo rimandano a casa: è proprio questa "non terapia" che costituisce la "terapia". I sistemici, molto intelligentemente, notano che a volte che il paziente, appena tornato a casa, mette in atto importanti cambiamenti, come se la (non) terapia avesse avuto un effetto. Queste considerazioni ci servono per guardare meglio al significato del contratto, le cui complesse implicazioni a mio parere rischiano di essere sottovalutate. Il contratto, per certi versi, sembra quasi un escamotage, un trucco per fare molteplici operazioni allo stesso tempo, non solo cioè per gettare le basi per poi poter condurre una terapia (come viene teorizzato ufficialmente), o per saggiare la validità della diagnosi, ma soprattutto (è questa la mia netta impressione) è esso stesso una forma di terapia. In altre parole, sembra quasi che la fase della contrattazione sia la terapia stessa, o una parte importantissima di essa che avviene implicitamente, correggendo schemi cognitivi a cui il paziente non aveva mai prestato attenzione ma che erano operativi, e che vengono modificati in modo altrettanto silente, semplicemente con la interazione. Il contratto infatti, a ben vedere, regola la relazione interpersonale, rappresenta quindi una modalità di relazione oggettuale. Non a caso il paziente borderline fa fatica ad entrare in un rapporto di rispetto reciproco e ad assumersi la responsabilità di determinati impegni presi, ed usa la persona con cui è in rapporto come contenitore delle proprie proiezioni, dei propri oggetti parziali scissi. Un contratto fermo costringe invece il paziente ad interrompere questa modalità. Se un paziente riesce a rispettare fino in fondo il contratto, potremmo dire che, al limite, è già guarito, che è capace di entrare in una relazione oggettuale matura. La terapia, per così dire, è già avvenuta. A ben vedere in ogni terapia vi è un contratto (alcune tecniche ne fanno addirittura il fulcro della teorizzazione, si pensi alla Analisi Transazionale). Anche nella psicoanalisi classica si dà sempre molta attenzione alle regole del setting, si analizzano le deviazioni da esso, e a volte si dice che l'analisi termina quando un paziente è capace a rispettarne fino in fondo determinati aspetti. Si ha l'impressione quindi che vi siano implicazioni più complesse, dietro a determinate tecniche terapeutiche, implicazioni che potrebbero essere non del tutto esplicitamente teorizzate o comprese. La storia della psicoterapia in fondo è anche la storia di tecniche sperimentate e poi solo in seguito teorizzate o capite in altro modo. Per quanto riguarda il contratto, ad esempio, viene spontaneo un interrogativo: se è vero che il rispetto del contratto da parte del paziente implica la modificazione di patterns comportamentali radicati da anni, come è possibile che il paziente scelga di aderirvi? Per quale motivo un paziente borderline dovrebbe dare retta a un terapeuta che gli chiede un simile sacrificio? Da quale fonte il terapeuta acquisisce il potere per ottenere questo cambiamento dal paziente? Potremmo pensare qui che il carisma e la notorietà di Kernberg giochino un ruolo (proprio come nel caso della Selvini): i pazienti spesso vengono da lontano, investono molto denaro, sono già carichi di motivazione (il fenomeno Lourdes, insomma). Sembra un paradosso: io sono disposto a curarti - pare dica il terapeuta - a condizione che tu sia già curato, cioè che tu sia già capace di controllare determinati gesti impulsivi che peraltro dovrebbero costituire proprio il bersaglio dell'intervento terapeutico. Il terapeuta potrebbe fungere da mero depositario della proiezione di una volontà o capacità di cambiamento, che per il momento il paziente non riesce a contenere (questi fenomeni sono stati ben documentati ad esempio dall'effetto "lista di attesa", che notoriamente in molte ricerche si è rivelata efficace quanto la psicoterapia, se non addirittura superiore). Molte ipotesi potrebbero essere fatte, e non è questa a sede per discuterle nel dettaglio, mi interessa solamente dare degli stimoli di riflessione. Accenno solo ad una di queste ipotesi, la prima che mi viene in mente: col contratto, che riguarda solo il comportamento - cioè, non dimentichiamolo, siamo ancora all'interno di una psicologia comportamentale - viene lasciata intatta la struttura psichica alla base della modalità relazionale, dando l'illusione al paziente che farà questa concessione al terapeuta, mentre sposterà su un altro piano (ad esempio su quello verbale) la sua modalità relazionale supponiamo ricattatoria o di controllo onnipotente. Viene cioè operata una prima differenziazione tra comportamenti e significato di questi comportamenti, chiedendo al paziente di modificare questi comportamenti senza necessariamente interpretarne per ora il significato (infatti durante la fase di contrattazione non si devono assolutamente interpretare al paziente gli eventuali suoi significati). Nel fare questo però intanto il terapeuta - quasi come un ipnotista ericksoniano - ottiene già una prima vittoria, un cambiamento del comportamento del paziente, il quale intanto vi si abitua e magari più tardi scopre che ci si può adattare, sostituendolo a precedenti sue modalità, e rimanendo coinvolto in una relazione emotivamente profonda che durerà alcuni anni e che gli offrirà tante altre opportunità di riflettere su se stesso e di cambiare altre modalità disadattive di funzionamento.
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