Il Ruolo Terapeutico, 1991, 56: 23-26
Paolo Migone
Continuo la trattazione del disturbo borderline, iniziata nella mia rubrica del numero precedente del Ruolo Terapeutico (55/1990), dove ho fatto una breve sintesi dell'evoluzione storica del concetto. In questo numero tratterò per sommi capi la psicodinamica di questo disturbo, presentando prevalentemente il pensiero di Otto Kernberg (1967, 1975, 1976, 1980, 1984), che è uno dei più conosciuti e principali autori che si sono occupati dell'argomento. Anche questa volta, per motivi di spazio, non riporterò la bibliografia, ma solo tra parentesi gli anni di pubblicazione dei singoli lavori: per i riferimenti completi rimando a versioni precedenti di questo materiale, citate a p. 30 del numero scorso. Il secondo paradigma teorico della psicoanalisi? Il paradigma teorico che caratterizza il disturbo borderline secondo alcuni rappresenta in un certo modo il secondo grande paradigma teorico nella storia della psicoanalisi, il primo essendo costituito notoriamente dall'isteria. Dietro a questa affermazione vi sono vari ordini di problemi. Il primo è inerente a un possibile cambiamento della patologia nevrotica avvenuto nel corso di questo secolo: come è noto, sono pressoché scomparsi i classici quadri isterici che vedeva Freud nella Vienna della fine '800, per lasciare il posto a più sfumati quadri del carattere, di tipo narcisistico o appunto borderline. Nel contempo la psicoanalisi ha allargato le sue mire terapeutiche, incominciando già a partire dagli anni '20 a investigare i problemi del carattere, procedendo con l'analisi delle difese a trasformarsi da Psicologia dell'Es a Psicologia dell'Io; di conseguenza la durata del trattamento psicoanalitico si è mano a mano allungata, e poi si è estesa la sua applicazione anche ad altre forme cliniche precedentemente escluse (i bambini, gli adolescenti, i delinquenti, gli psicotici, e appunto i disturbi di personalità borderline). Tutto ciò ha portato, con un movimento circolare, a feed back tra clinica e teoria, a un vero e proprio cambiamento avvenuto nella teoria psicoanalitica, grazie ai progressi avvenuti in quasi un secolo di ricerche. Gli analisti hanno sempre più sentito l'esigenza di modificare la teoria classica, sentendosi stretti nell'applicazione del modello strutturale della seconda topica freudiana (la struttura tripartita Io/Es/Super-Io) ai casi più gravi di disturbi di personalità e agli psicotici. Questi nuovi riferimenti teorici hanno a loro volta permesso una riconsiderazione diagnostica e clinica degli stessi quadri che precedentemente venivano trattati col modello tradizionale (basti pensare ad esempio che molti autori addirittura ritengono che alcuni dei famosi casi clinici di Freud verrebbero oggi diagnosticati come personalità borderline o schizotipiche). La posizione di Kernberg Cercherò ora di presentare il pensiero di Kernberg, cercando di mettere in luce i passaggi da lui fatti e le ragioni che lo hanno spinto a proporre alcune modifiche alla teoria psicoanalitica tradizionale, tali appunto, secondo alcuni, da rendere il disturbo borderline il secondo paradigma della psicoanalisi dopo quello dell'isteria. In che modo Kernberg è giunto alla conclusione che la teoria psicoanalitica classica, basata sulla struttura tripartita Io/Es/Super-Io, non era più soddisfacente nello spiegare la psicodinamica dei quadri borderline e dei disturbi gravi di personalità in generale? Egli prese spunto da una delle osservazioni cliniche da lui fatte più frequentemente in questi pazienti, secondo la quale essi presentavano in momenti diversi delle manifestazioni psicologiche complesse che avevano entrambe le caratteristiche di essere opposte e conscie. Ad esempio essi potevano idealizzare il terapeuta, ma l'indomani svalutarlo, oppure potevano essere contenti di sé e in un altro momento molto insoddisfatti o depressi, e così via. In altre parole i borderline presentavano, in momenti alternanti, opposte e coscienti immagini del Sé e dell'oggetto, "buone" e "cattive" (con l'ottica della psichiatria descrittiva, questi quadri possono essere espressione di un disturbo dell'umore). In genere gli analisti tradizionali, di fronte a queste manifestazioni cliniche, utilizzavano il concetto classico di difesa: potevano teorizzare ad esempio che un paziente si difendeva da un affetto positivo o da un'attrazione inconscia svalutando l'oggetto, o viceversa che si difendevano da forti aggressività o odio inconsci (dei quali avevano troppa paura) con una idealizzazione conscia. Una osservazione clinica comune era che se queste difese venivano interpretate, o se questi pazienti venivano confrontati con le loro contraddizioni, mostravano un aumento di ansia, come se avessero bisogno di mantenere queste immagini scisse e ben separate. Il fatto però che queste immagini, anche se in momenti diversi, erano conscie, fece pensare a Kernberg che il concetto classico di difesa secondo la Psicologia dell'Io era qui poco utilizzabile, in quanto non era basato sulla stabile rimozione nell'inconscio di un determinato contenuto psichico, e in ogni caso non era facile comprendere quale delle tre strutture psichiche (Io, Es, o Super-Io) fosse rappresentata in ogni singolo caso dalle varie manifestazioni cliniche. Kernberg ipotizzò quindi che queste diverse immagini, che si presentavano come opposte e conscie, erano manifestazioni cliniche di immagini intrapsichiche del Sé e dell'oggetto non integrate in modo coerente, a causa di un disturbo avvenuto prima della formazione e della stabilizzazione della struttura psichica. Il conflitto infatti nei borderline non sarebbe rappresentato da una divisione "orizzontale" della psiche, cioè tra conscio e inconscio, basata sul meccanismo della rimozione, ma "verticale", tra immagini sia conscie che inconsce, e causata da meccanismi di difesa primitivi, quali sopratutto la scissione (splitting), che compartimentizzano la psiche in stati alternanti nei quali è possibile vedere che non si è ancora formata una stabile differenziazione tra Io, Es e Super-Io. Detto in altri termini, i conflitti non sarebbero intersistemici, ma intrasistemici. La struttura tripartita infatti si formerebbe, nello sviluppo, a partire da più primitive formazioni, le "relazioni oggettuali interiorizzate", che, collegate a una tonalità affettiva, costituirebbero appunto i "mattoni di costruzione" (building blocks) delle tre istanze strutturali. Il motivo per cui i borderline, nella fase pre-edipica, non riuscirebbero a integrare queste primitive formazioni in immagini coerenti e stabili potrebbe dipendere, secondo Kernberg, da un eccesso costituzionale di "pulsione aggressiva", che impedirebbe alle rappresentazioni positive di integrarsi normalmente con quelle negative, portando così alla formazione di immagini scisse e contradditorie (si può dire che questo concetto di "eccessiva aggressività costituzionale" lascia uno spiraglio al dialogo tra questi settori della psicoanalisi e la psichiatria biologica). Secondo Kernberg, che qui mostra bene l'influenza che hanno avuto su di lui vari autori che hanno studiato il periodo pre-edipico, soprattutto la Jacobson (1964) e la Mahler (1968; et al., 1975), il bambino avrebbe di fronte a sé due compiti da assolvere, in rapida successione: il primo è quello di separare le rappresentazioni del Sé da quelle dell'oggetto (il cui fallimento, responsabile delle psicosi, non permette ovviamente di affrontare il compito successivo), e il secondo è quello di integrare in immagini coerenti, sia a livello del Sé che dell'oggetto, le immagini opposte, "buone" e "cattive", costruite a partire dalle prime relazioni oggettuali parziali (il fallimento di questo secondo compito, con però la riuscita del primo, è responsabile della organizzazione borderline). Questo diverso modo di vedere la struttura psichica avrebbe varie implicazioni pratiche a livello della tecnica psicoterapeutica, dove ad esempio, come principale intervento clinico, viene più usato il confronto anziché l'interpretazione. A questo proposito si potrebbe aprire una parentesi e fare interessanti considerazioni, che qui però possono essere solo accennate non costituendo l'oggetto di questa trattazione. Il diminuito uso dell'interpretazione, che in generale si nota sempre più nella pratica psicoanalitica contemporanea, non dipende unicamente da queste nuove premesse teoriche e dalla terapia con pazienti più gravi, ma si intreccia anche ad altre modificazioni avvenute nella tecnica a seguito di tendenze che hanno recentemente preso piede in seno al movimento psicoanalitico: da una parte, sotto l'influenza della corrente cosiddetta "ermeneutica", è stato relativizzato il concetto di "verità" dell'interpretazione ed è venuto meno l'accordo sul "cosa" interpretare, in favore di un dialogo conscio col paziente alla ricerca di un senso, di una storia o "narrativa" della sua vita da costruire insieme (vedi anche la mia rubrica su n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico), nella quale può trovare posto anche il tentativo di appianare eventuali contraddizioni od oscillazioni affettive riguardo a mete od oggetti significativi del paziente; dall'altra, sotto l'influenza del movimento della "Psicologia del Sé" fondata da Kohut, si è data sempre maggiore importanza all'accettazione del vissuto conscio del paziente, all'area più esperienziale o "fenomenologica", a scapito dei contenuti inconsci e "pulsionali" la cui esistenza, nei termini della psicoanalisi classica, viene addirittura negata dall'ultimo Kohut (1977, 1984). Per tornare alla concettualizzazione di Kernberg, si deve notare che essa, basata sulla sintesi di varie influenze culturali tra cui soprattutto certi aspetti della teoria kleiniana con la classica Psicologia dell'Io nordamericana, è stata possibile grazie al suo particolare percorso culturale e biografico: egli infatti, formatosi in una atmosfera culturale kleiniana (fu allievo di Matte Blanco in Cile), migrò poi negli Stati Uniti, allora refrattari alla teoria kleiniana, portando con sé il suo prezioso bagaglio culturale che doveva poi utilizzare nel suo fertile lavoro di sintesi teorica. Abbiamo già visto, ripercorrendo la storia del concetto di borderline nel numero precedente del Ruolo Terapeutico (55/1990), i tre criteri diagnostici "intrapsichici" o "strutturali" che Kernberg utilizza per fare la diagnosi di borderline, e per differenziarla rispettivamente dalle nevrosi e dalle psicosi: essi sono la diffusione di identità, la presenza di esame di realtà, e le difese primitive (quali appunto la scissione). Ora forse possiamo comprendere meglio la psicodinamica di questo disturbo, in cui si può vedere come questi tre criteri diagnostici siano strettamente connessi l'uno con l'altro. La diffusione di identità per esempio, criterio fondamentale per la diagnosi borderline, è strettamente dipendente dalla presenza di difese primitive, quali soprattutto la scissione, che si può a questo punto considerare quasi un "marker psicodinamico" della struttura borderline. Come viene descritto molto bene negli esempi clinici della "intervista strutturale" per i borderline (Kernberg, 1981, 1984; vedi anche Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1983, pp. 14-15), il paziente può presentarsi con incertezze di fondo a vari livelli: stili di vita (interesse per il successo economico o per un lavoro al servizio della comunità o di una causa ideale, o la possibile coesistenza di entrambi), carriera (difficoltà a scegliere un lavoro o ad adattarsi a quello scelto), tipi di amici o partner (incertezza sul tipo di amici da frequentare e sul grado di intimità da raggiungere, ricerca di partner con caratteristiche molto diverse tra loro), sessualità (comportamenti etero- od omosessuali, o entrambi), valori morali (comportamento onesto alternato da periodi caratterizzati da piccoli furti), religione (inaspettati cambiamenti di religione, crisi e riconversioni di fede), politica (frequenti cambiamenti di idee politiche, iscrizioni a partiti diversi), e così via. Il paziente può presentare cronici sentimenti di vuoto, immagini contradditorie di sé, difficoltà ad empatizzare con gli altri, ecc.; a sua volta, il terapeuta può provare, a livello controtransferale, un disagio dovuto a una difficoltà a farsi un'idea precisa di che tipo è il paziente, cioè a costruire dentro di sé una immagine integrata di lui, a empatizzare con lui, come se "la sua vita fosse una raccolta di storie scritte da diversi autori". Aspetti psicoterapeutici Coerenti con questa impostazione teorica sono le modificazioni proposte da Kernberg per la tecnica psicoterapeutica, alle quali qui vorrei brevemente accennare (vedi il recente manuale di Clarkin, Yeomans & Kernberg, 1999, di cui alcune pagine sono state pubblicate su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/clarki99.htm, e il videotape del corso intensivo di Clarkin, 1997). Kernberg (1975, 1984) ha proposto una psicoterapia "espressiva" basata su una modificazione della tecnica psicoanalitica classica che egli esperimentò nel noto progetto di ricerca sulla psicoterapia della Menninger Foundation (Kernberg et al., 1972). In esso furono paragonati, sia con pazienti con "buona forza dell'Io", cioè nevrotici, che con pazienti con "debolezza dell'Io", cioè borderline e psicotici, gli effetti di tre tipi di psicoterapia (psicoanalisi, psicoterapia espressiva, e psicoterapia supportiva; per un chiarimento su questa terminologia, rimando alla mia recensione del manuale di Luborsky [1984] su Psicoterapia e Scienze Umane, 1990, 2: 125-130). I risultati di questa ricerca dimostrarono che mentre i nevrotici tendono a migliorare con ogni tipo di psicoterapia, i borderline ottengono maggiori risultati da una psicoterapia espressiva, e minori risultati sia da una terapia di supporto che dalla psicoanalisi classica. Fu da questo studio, che è la prima ricerca sulla psicoterapia a lungo termine attuata con una metodologia rigorosa, che Kernberg perfezionò la sua tecnica della psicoterapia espressiva per i borderline. Essa (vedi Kernberg, 1984, cap. 6) si basa su una modificazione della psicoanalisi classica attraverso anche l'impiego di "parametri" (Eissler, 1953). Kernberg differisce dalla concezione classica di autori quali Knight (1953, 1954), Zetzel (1971), H. Friedman (1969) e altri, i quali ritenevano che la terapia più indicata per i borderline fosse un approccio strettamente supportivo, il solo secondo loro capace di fronteggiare la gravità di questi pazienti e la loro difficoltà a mantenere una alleanza terapeutica. Egli, in accordo con autori quali Frosch (1970), Masterson (1972), Buie & Adler (1982), e altri, ritiene invece che il terapeuta con i borderline deve utilizzare una psicoanalisi modificata, da lui definita "psicoterapia espressiva", che riesca a non scivolare in un atteggiamento puramente di supporto e di manipolazione del transfert (anche se non raramente con questi pazienti siamo costretti ad utilizzare massicci interventi ambientali, come il ricovero, particolarmente quando sono presenti tendenze etero- o autodistruttive). La tecnica di Kernberg quindi non prevede tanto, o solo, la interpretazione sul materiale inconscio, quanto, come ho detto prima, anche interventi di chiarificazione e confrontazione sui vissuti consci del paziente, i quali sono spesso contradditori e alternanti riflettendo la diffusione di identità, dovuta al frequente impiego della scissione come predominante meccanismo di difesa. La interpretazione va indirizzata prevalentemente all'hic et nunc della seduta, non al materiale del passato, e soprattutto quando emerge il transfert negativo, evenienza frequente che se non fronteggiata adeguatamente può minacciare nei pazienti borderline il proseguimento della terapia. Kernberg ritiene che con questi pazienti un approccio esclusivamente supportivo, che si limiti a rafforzare le difese esistenti, possa avere in realtà un effetto paradossale, aumentando l'angoscia e i sintomi disadattivi, mentre un approccio "espressivo" allarga le loro potenzialità cognitive ed adattive (per una migliore e più coerente teorizzazione sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, si vedano però le recenti posizioni di Gill sulla "analisi del transfert" [Teoria e tecnica dell'analisi del transfert, ed. or. 1982, Astrolabio, 1985; "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione", ed. or. 1984, in Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicologia Clinica, Vol. 4: Trattamenti in setting individuale, Franco Angeli, 1989, pp. 128-157], posizioni che io ho approfondito in un lavoro non ancora pubblicato). Bisogna ricordare che i dati di ricerca su cui si basa Kernberg sono quelli del progetto della Menninger Foundation, criticato in seguito da alcuni autori sia per il limitato numero di soggetti studiati che per la complessità della analisi statistica impiegata (May, 1973; McNair, 1977). Questo campo di indagine, per raggiungere conclusioni definitive, richiede dunque ulteriori studi sistematici e controllati, peraltro difficili da attuare per le note difficoltà metodologiche della ricerca in questo settore (vedi a questo riguardo la mia rubrica sul n. 51/1989 del Ruolo Terapeutico; per la psicoterapia con i pazienti gravi, si veda anche quella sul n. 48/1988). I contributi di Kernberg comunque, anche se importanti, sono solo alcuni tra i tanti studi dedicati allo studio della psicodinamica dei disturbi borderline. Voglio qui menzionare altri autori, anche se brevemente. Uno di questi è Masterson, il quale ha formulato alcune ipotesi eziologiche basate su dinamiche evolutive. Masterson (1981) e Rinsley (1982) infatti ritengono che il caratteristico disturbo dei borderline avvenga nel secondo e terzo anno di vita, nella fase di separazione-individuazione (Mahler et al. 1975), quando il principale compito del bambino è quello di padroneggiare la "angoscia di separazione". Masterson postula una "triade borderline" costituita da una difficoltà nella separazione-individuazione, che porta a una "depressione abbandonica", la quale a sua volta porta all'utilizzo di difese primitive (simili a quelle descritte da Kernberg). L'operazione che ha fatto Masterson è stata quella di applicare ai borderline (e agli adolescenti) la teoria evolutiva che la Mahler aveva concepito per il bambino, e di ipotizzare che l'atteggiamento delle figure genitoriali giochi un ruolo determinante nella genesi del disturbo borderline; quest'ultima ipotesi comunque non è stata comprovata da ricerche controllate. Per ultimo, si può menzionare Kohut, il fondatore della "Psicologia del Sé", già citato prima, il quale ha approfondito lo studio del narcisismo e dei disturbi gravi di personalità, e ha cercato di adattare la tecnica psicoanalitica a questi casi in genere ritenuti intrattabili dalla psicoanalisi classica. Kohut (1971, 1977, 1978, 1984) usa spesso il termine borderline, ma è importante sottolineare che egli assegna a questo termine un significato diverso da quello di altri analisti: i borderline di Kohut assomigliano ai borderline dei pionieri della psicoanalisi, che li concepivano come quadri vicini alla schizofrenia se non addirittura come psicosi mascherate. Di conseguenza Kohut ritiene che i borderline, come gli psicotici, non siano trattabili con la psicoanalisi, contrariamente ai narcisisti i quali, collocandosi tra i borderline e le nevrosi vere e proprie, sarebbero meno gravi e avrebbero una prognosi migliore. Bibliografia Aarkrog T. (1973). 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