Il Ruolo Terapeutico, 1996, 73: 40-45
Paolo Migone
Il 2 dicembre 1994 fui invitato a Reggio Emilia a tenere una relazione ad un seminario intitolato "Che cosa si dice a un giovane terminale? L'esperienza dei SerT nella regione Emilia Romagna", organizzato dal Prof. Umberto Nizzoli, Responsabile del Dipartimento delle Dipendenze Patologiche della Azienda USL di Reggio Emilia. Voglio utilizzare lo spazio di questa rubrica per riportare una versione dell'intervento che lessi a quel seminario. La relazione originale, intitolata "La psicoanalisi e il paziente terminale", è stata pubblicata sulla rivista Personalità/Dipendenze, 1996, II, 1: 43-50, diretta da Roberto Bertolli e Umberto Nizzoli, che ringrazio per avermi dato il permesso di pubblicarne una versione sul Ruolo Terapeutico (per una bibliografia più completa, rimando all'articolo originale [in fondo all'articolo viene pubblicata una bibliografia parziale]). La psicoanalisi e il paziente terminale L'approccio al paziente terminale, e quindi il problema del nostro rapporto con la morte e con tutte le emozioni che essa ci può evocare, non viene affrontato spesso, per motivi probabilmente legati alla tendenza inconscia ad evitare un tema così inquietante. In molti programmi di training per operatori della salute mentale vi è addirittura una scotomizzazione di questo problema, mentre in altri paesi già da anni viene dato ampio spazio a questo argomento con materie quali "Death and Dying" [La morte e il morire], inserite nell'insegnamento della tanatologia e nei programmi di Consultation & Liaison, cioè di "Psichiatria di Consulenza" e "di Collegamento" con la medicina, altrimenti detta Psicologia Medica. La psicoanalisi si è occupata più volte del problema della morte e del paziente terminale. Freud nel 1915 [Noi e la morte, OSF/Complementi, pp. 131-141; Il nostro modo di considerare la morte, OSF, 8, pp. 137-148) parlò del "nostro modo di considerare la morte", e tanti autori in seguito hanno affrontato il tema della tanatologia e del lavoro col paziente terminale [ad esempio K.R. Eissler, The Psychiatrist and the Dying Patient, New York: Int. Univ. Press, 1955]. Per quanto riguarda però la morte per Sindrome di Immunodeficienza Acquisita (AIDS), nonostante il fatto che siamo ormai giunti a più di un decennio dall'inizio di quella che può essere considerata la più grave emergenza medica di questa generazione e l'epidemia più letale di questo secolo, la psicoanalisi, tranne rare eccezioni, ha prestato poca attenzione a questo dramma. Ha dedicato ad esempio molti studi a temi come la guerra o la distruttività umana, l'incesto o la violenza nelle famiglie, la delinquenza, i disturbi psicosomatici, ecc., e relativamente pochi studi sui problemi creati dall'AIDS. Può essere che siamo ancora troppo vicini a questo dramma, o, peggio, che persistano ancora paure o pregiudizi (un altro tema che è stato trattato molto poco è il modo con cui affrontare la malattia terminale dell'analista - se e come dirlo ai propri pazienti - tema che solo in tempi recenti è stato discusso in modo sistematico [vedi ad esempio L. Barbanel, The death of the psychoanalyst, Contemporary Psychoanalysis, 1989, 3: 412-419]). Intendo discutere prima alcuni aspetti dell'approccio al paziente sieropositivo all'HIV, per poi allargare il tema al rapporto col paziente terminale. Il paziente sieropositivo, e a maggior ragione quello affetto da AIDS, è potenzialmente un paziente terminale, anche se, con le conoscenze attuali, sappiamo che la morte può essere ritardata di molti anni. La difficoltà di affrontare il problema della morte in un paziente terminale può essere alleviata dal riferimento a modelli teorici, anche se questi non possono essere completamente sostitutivi di una continua nostra elaborazione del modo con cui ci rapportiamo con la salute, la morte, le priorità della vita, e così via. Consapevoli dunque che i modelli teorici possono avere per noi anche una funzione difensiva (in quanto ci portano ad inquadrare i dati in modo predefinito e quindi più rassicurante rispetto ad altri eventuali significati che essi possono avere) vediamo come alcuni autori hanno descritto la fenomenologia e la psicodinamica del paziente terminale. Modelli teorici della psicologia del paziente terminale E. Kübler-Ross nel 1969 [La morte e il morire, Assisi: Cittadella, 1979] ha fornito un modello per descrivere il decorso del paziente quando apprende di essere affetto da una malattia terminale. Questo modello è basato su cinque stadi successivi: 1) negazione, 2) rabbia, 3) contrattazione, 4) depressione, e 5) accettazione. Questi stadi possono succedersi in un ordine diverso e non necessariamente come entità separate. Ad esempio una delle prime reazioni da parte di un paziente che apprende di essere sieropositivo può essere una combinazione di negazione e depressione (stadi 1 e 4): la negazione è una difesa più massiccia che rivela la incapacità o impreparazione del soggetto ad essere consapevole di una sua possibile morte (a causa dei conflitti che si creano tra i desideri, le emozioni, i piani, ecc., connessi a una aspettativa di vita più prolungata, e il loro abbandono a causa della eventualità di una morte prematura); la depressione invece implica una consapevolezza, anche se a volte inconscia, della eventualità della morte. Questi due stati emotivi possono alternarsi, così come vediamo di frequente nelle persone che hanno subìto un lutto (momenti di tranquillità legata alla negazione del decesso, alternati da depressione o disperazione legate alla consapevolezza della realtà). S.E. Nichols [Emotional aspects of AIDS: implications for care providers, Journal of Substance Abuse Treatment, 1987, 4: 137-140] descrive il decorso psicologico dopo la consapevolezza dell'infezione da HIV e propone un modello più semplice, caratterizzato solo da tre fasi successive che condensano alcune delle fasi del modello della Kübler-Ross (va ricordato che Flavio Bonfà [Percorsi di elaborazione psicologica dell'infezione da HIV in ex tossicodipendenti, Rivista Sperimentale di Freniatria, 1990, 3: 1057-1068], che dirige il SERT di Fiorenzuola, ritiene che il modello di Nichols non sia così facilmente generalizzabile, soprattutto in contesti socioculturali diversi da quello americano che era caratterizzato da pazienti quasi esclusivamente omosessuali). Vediamo comunque il modello di Nichols: 1) Una prima fase spesso caratterizzata da negazione. 2) Una seconda fase chiamata "transizionale" nella quale la negazione lascia il posto ad emozioni forti ed alternanti quali rabbia, paura, terrore, depressione, ecc. In questa fase vi è una certa disponibilità all'intervento terapeutico ma anche pericoli di suicidio. Nelle parole di Nichols, questa seconda fase inizia "quando la negazione e la nonchalance incominciano a incrinarsi e a svanire. Il paziente prova una serie di emozioni alternanti: rabbia, paura, terrore, depressione, e pensieri suicidiari. E' una fase davvero ribollente, ed è molto pericolosa. I pazienti, essendo così aperti, in questo momento sono anche molto disponibili all'intervento. Non dobbiamo dimenticare che quando vediamo i pazienti in questa fase caotica, essi possono avere la tendenza ad isolarsi, il che può essere la premessa al suicidio" (p. 138). 3) Dopo la seconda fase vi è una terza fase chiamata "di accettazione" o "di negazione rinforzata", nella quale i pazienti non negano la malattia ma si adattano ad essa vivendo meglio la loro vita, a volte molto meglio di prima, diventando più produttivi e più realistici, quasi come se avessero acquisito una nuova identità. Questa terza fase è il risultato di un complesso processo psicologico che sarebbe più appropriato definire come basato non su una "negazione rinforzata" ma su una rimozione riuscita, cioè sulla risoluzione del conflitto e la conseguente formazione di nuove strutture psichiche che conducono a un maggiore adattamento all'unica realtà possibile, con la rinuncia all'inutile desiderio di una vita irrealizzabile. M.J. Blechner [Psychoanalysis and HIV disease, Contemporary Psychoanalysis, 1993, 1: 61-80, p. 68], a illustrazione di questa fase, riporta il caso di uno scrittore, malato di AIDS, che aveva sempre avuto problemi nella vita (come idee depressive e suicidiarie) e che nei tre anni successivi alla diagnosi di AIDS riuscì a pubblicare due libri, a scrivere vari articoli, e a mantenere una profonda e stabile relazione sentimentale per la prima volta in vita sua. A proposito però di questi cambiamenti così radicali, soprattutto in un paziente precedentemente affetto da una determinata psicopatologia, essi andrebbero ben differenziati da un tipo di reazione psicologica che ha origini diverse: alludo a quei casi, discussi soprattutto dagli psicoanalisti kleiniani, che mostrano un benessere interiore nella misura in cui compare un pericolo reale. Sono stati osservati, ad esempio, casi di scomparsa di depressione in tempo di guerra o di altre calamità naturali. La certezza che esiste un male "reale" può dare un momentaneo benessere nella misura in cui il paziente aveva una angoscia persecutoria interiore, la quale viene così facilmente proiettata all'esterno, nel senso che il paziente si rassicura che il male è fuori di lui, tale da deflettere l'attenzione da quello più minaccioso che teme di avere dentro. In altre parole, il paziente depresso o affetto da croniche angosce persecutorie (come può essere stato il caso descritto prima da Blechner), nel momento in cui apprende di avere una malattia grave o potenzialmente terminale può rispondere in modo paradossale, riunendo le sue forze per combattere la malattia che ora è più oggetivabile come malattia somatica, non psicologica; sarebbe come se il paziente dicesse a se stesso che la "colpa non è più sua ma di qualcun'altro" (oppure non della psiche ma del corpo). Nel linguaggio kleiniano o della scuola delle relazioni oggettuali, ora il paziente può sentirsi "tutto buono", mentre il male è "tutto fuori". A me è capitato ad esempio di osservare il caso di un paziente che aveva una serie di angosce e paure, e che quando scoppiò la Guerra del Golfo, che secondo alcuni commentatori politici poteva minacciare anche l'Italia, stette improvvisamente molto bene, fu di nuovo capace di provare affetto e di fare l'amore con la propria moglie, scomparvero le fobie di cui soffriva da tempo, per poi tornare come prima quando "purtroppo" la guerra finì e cessarono i pericoli di un coinvolgimento italiano nel conflitto. Del resto, sono ben noti i casi di paranoici che si tranquillizzano nella misura in cui trovano un nemico reale esterno, e peggiorano quando il nemico non si comporta come tale o non risponde alle loro provocazioni. Per tornare all'approccio al paziente sieropositivo, nella prima fase dopo la consapevolezza dell'infezione (quella caratterizzata spesso dalla negazione o da momenti in cui essa si alterna con angoscia e depressione) è sempre meglio che l'operatore non cerchi di eliminare la negazione prematuramente tramite l'interpretazione o il confronto con la realtà (a meno che il paziente non intraprenda azioni eterodistruttive, come ad esempio trasmettere l'infezione ad altri, nel qual caso può essere consigliabile confrontarlo con la realtà); è meglio che l'operatore si renda disponibile ad assistere il paziente quando questi è pronto a superare la negazione. La realtà della infezione è talmente grave che i pazienti sono i primi ad affrontarla se ne hanno la capacità, e se ne sono impreparati la negheranno comunque (ciò a volte è ben testimoniato dalla tenace negazione della morte da parte di quei medici, magari specialisti in oncologia, che negano la propria malattia terminale, rifiutandosi di diagnosticare a se stessi la neoplasia maligna che li ha colpiti). Può essere indicato cioè, per quanto possibile, lasciare al paziente la scelta del modo con cui affrontare la consapevolezza della eventualità di una sua morte prematura, a seconda della struttura difensiva di cui dispone. E' importante a questo proposito che il paziente venga informato sulle incertezze che ancora esistono riguardo al decorso dell'infezione. Bisognerebbe informarlo che è possibile, per coloro che sono sieropositivi e liberi da infezioni opportunistiche (herpes, funghi, polmoniti, ecc.), rimanere senza sintomi anche per 10 anni; che alcuni sembrano non progredire verso l'AIDS; che, per quanto si sa oggi, è possibile vivere con lo stesso AIDS per una decina d'anni o forse più; e che la migliore strategia di vita è quella di continuare a fare tutte le cose che si desidera fare meglio che si può per tutto il tempo possibile, cercando nel contempo di fare scelte informate per quanto riguarda il pericolo di infettare altri. Il paziente deve anche essere educato sulla natura esatta della infezione, sulla importanza della sua collaborazione eventualmente anche a discutere col medico diverse opzioni terapeutiche, e così via (mai come in questi casi possono essere utili le tecniche di "psicoeducazione" sulla natura della malattia, del contagio, e delle terapie esistenti - le fantasie conscie e inconsce, basate sulla ignoranza, sono sempre peggiori della realtà [per il concetto di "psicoeducazione", vedi la mia rubrica sul Il Ruolo Terapeutico, 48/1988, p. 32]). Può essere utile leggere periodici che informano sulla infezione HIV, intraprendere una terapia individuale, o partecipare a gruppi terapeutici o di self-help (auto-aiuto). E' negli Stati Uniti che sono state accumulate le esperienze maggiori nell'approccio psicologico con i pazienti affetti da AIDS, dato che l'epidemia là ha raggiunto proporzioni molto vaste, anche se si è trattato inizialmente di un campione di pazienti diverso da quello italiano: come sappiamo, mentre in Europa l'epidemia si è diffusa prevalentemente tra tossicomani, negli Stati Uniti inizialmente fu tra omosessuali. Reazioni controtransferali Per parlare ora dell'operatore di fronte al paziente terminale, molte cose si possono dire sulle difese adottate e sulle varie reazioni "controtransferali" (nel senso di una accezione allargata del termine). Tra le più comuni reazioni controtransferali degli operatori vi è la negazione della morte, il non parlarne col paziente, il dimenticarsi di appuntamenti con pazienti particolarmente difficili, e così via. Tutti questi sono segnali del fatto che a livello inconscio percepiamo bene la problematica dolorosa della morte, connessa a nuclei più o meno bene elaborati dentro di noi, per cui evitiamo un problema nostro, oltre che del paziente. E' possibile però anche che la negazione della morte da parte dell'operatore sia una inconscia risposta empatica al bisogno del paziente di negarla; in questo caso l'operatore però dovrebbe essere pronto a parlarne se il paziente diventasse più disponibile. Un'altra reazione molto spesso osservata è quella opposta, cioè la fantasia onnipotente di curare l'AIDS. Questa reazione si può dire uguale e contraria a quella precedente, in quanto si nega ugualmente la realtà della malattia. La fantasia può essere quella di poter curare l'AIDS con terapie alternative o con mezzi psicologici: in certi paesi ad esempio si legge sui giornali la pubblicità di certi "curatori" che illudono con una possibile guarigione le persone meno equipaggiate culturalmente, per poi magari farle sentire colpevoli se non guariscono come era stato promesso. Ma anche alcuni di noi in un certo qual modo possono comportarsi come questi "curatori": si tratta di quegli operatori psichiatrici o quegli amici che si dedicano totalmente ai pazienti terminali, offrendo loro molto del loro tempo anche a domicilio, passando ore al capezzale del paziente, in una sorta di missionarismo che può rivelare una onnipotenza come negazione massiccia della morte, come incapacità a percepirla, come espressione di ansia da parte nostra. Questo che alcuni autori hanno chiamato "folle amore generoso e gratificante", questa "fusione patologica" basata su una "grandiosità maniacale", può avere momentanei effetti benefici se il paziente utilizza le stesse difese, ma può essere di corto respiro e condurre al burn-out dell'operatore [per una vivida descrizione clinica di questa "cura attraverso la follia", vedi il libro di R. Langs del 1985 Follia e cura, Torino: Bollati Boringhieri, 1988, cap. 17]. Opposta a questa difesa vi è la indifferenza, l'abitudine, tipica in coloro che hanno visto molti casi di pazienti o amici morti di AIDS. Negli Stati Uniti non solo gli operatori del settore, ma anche i membri di certe comunità omosessuali sono sottoposti a questo tipo di lutto esteso: c'è chi ha contato fino a 10 amici morti, o chi addirittura ha perso tutti gli amici, situazione che alcuni autori hanno paragonato a quella della guerra e dell'olocausto nazista. In molti casi questa indifferenza può essere adattiva. Va segnalato inoltre in alcuni di coloro che sono rimasti vivi è stata descritta la sindrome della "colpa del sopravvissuto", che eventualmente può essere rinforzata dal desiderio che spesso si ha avuto che un paziente o un amico affetto da AIDS avanzato morisse presto per l'orrore delle sue sofferenze. Un'altra tipica difesa che si nota di fronte alla morte imminente è l'uso dell'ironia, allo stesso modo con cui alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento hanno raccontato che venivano trattati coloro che incominciavano a mostrare gli inconfondibili segni del decadimento organico per eccessiva denutrizione, il passo incerto, ecc., il quadro insomma che regolarmente preludeva alla loro morte di stenti. Tale era l'angoscia di fronte a questi compagni che non ce la facevano più, e tale la paura di fare la stessa fine, che essa veniva negata col cinismo e l'ironia, e questi compagni moribondi, come hanno raccontato alcuni sopravvissuti, venivano derisi con nomignoli vari. L'uso dell'ironia come difesa da sensazioni angoscianti è stata descritta anche in tante altre situazioni cliniche (si vedano ad esempio le interessanti osservazioni di S. Perry del 1983 [Il bisogno di dolore, Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, 3: 63-84] sui pazienti gravemente ustionati, come certi vigili del fuoco che avevano perso la quasi totalità della superficie cutanea e quindi anche ogni sensazione dolorifica, oltre al proprio senso di identità corporea, i quali venivano regolarmente chiamati "hamburgers" dallo staff infermieristico che cercava in questo modo di evitare l'angoscia di mettersi nei panni di questi poveri pazienti). Un inquadramento teorico generale Fin qui ho accennato ad alcuni modelli teorici delle reazioni psicologiche del paziente terminale, dato alcune sommarie indicazioni sul modo con cui l'operatore dovrebbe affrontarle, e illustrato alcune dinamiche controtransferali. Può non essere un caso che ho procrastinato di affrontare in modo approfondito il tema che è nel titolo di questa rubrica, cioè "che cosa si dice a un paziente terminale": questo tema ha a che fare con la nostra concezione della morte e con le più profonde reazioni psicologiche con le quali ci rapportiamo ad essa. Quando si parla della morte è difficile farlo in modo appropriato, tanto che forse è preferibile tacere, proprio come a volte il modo migliore con cui possiamo testimoniare la nostra partecipazione a un amico che ha subìto un lutto è quello di stare per un po' in silenzio accanto a lui; ogni nostra parola può non essere all'altezza della complessità e della delicatezza dei sentimenti che lui può provare. La morte è uno dei fenomeni meno comprensibili e meno immaginabili. Questo tema è stato affrontato da tanti autori dai punti di vista delle rispettive discipline: medicina, psicologia, filosofia, religione, ecc. (per una bibliografia dettagliata rimando al mio articolo su Personalità/Dipendenza, 1996, II, 1: 43-50). Io in questa sede mi limiterò a suggerire un inquadramento teorico generale dell'approccio al paziente terminale. L'inquadramento teorico generale che ritengo più utile è quello di considerare la preparazione alla morte come un importante "evento di vita" (life event), cioè una di quelle situazioni destinate a provocare grosse ripercussioni nell'equilibrio psicologico del soggetto. Altri "eventi di vita" possono essere la morte di una persona cara, una separazione, un improvviso licenziamento lavorativo, ecc. Propongo cioè di non considerare la morte come un evento particolare rispetto a tutti gli altri (come si farebbe seguendo una determinata filosofia o concezione della morte), anche se si può obiettare che esso è di gran lunga il più significativo in quanto relativizza tutti gli altri. Ma l'impatto di qualunque evento dipende dai valori adottati dal soggetto e dai significati che esso assume in quel determinato momento del ciclo vitale. Non a caso gli eventi di vita vengono tradizionalmente divisi in due sommarie categorie: i timely events e gli untimely events. I primi sono gli eventi prevedibili che avvengono in un tempo "normale", e i secondi quelli invece non prevedibili che vanno contro al tempo che regola le aspettative della nostra esistenza. Un esempio di evento normale è la morte di un genitore in età avanzata, mentre un esempio di untimely event è la morte di un figlio per un genitore. Quello che voglio dire è che anche la morte può avere significati molto diversi: una cosa è morire in età avanzata dopo una ricca e soddisfacente vita, e ben altra cosa è morire in età giovanile per l'infezione di un virus (magari preso in modo accidentale o a causa di un comportamento illegale, di cui ci si sente in colpa e che si è poi abbandonato). Non solo, ma l'impatto della morte varierà a seconda dei rispettivi significati che ad essa darà ogni singolo paziente, del suo sistema di valori (se è religioso e, nel caso, di quale religione, oppure non credente e, nel caso, quel è la sua "ideologia"), e soprattutto a seconda della sua maturità o struttura psicologica, cioè del suo apparato difensivo. In determinati casi e in un determinato momento del percorso esistenziale, può essere più facile sapere cosa dire a un giovane terminale che a una persona disperata per aver perso un congiunto in un incidente o addirittura per essere stata lasciata dal proprio partner (questo evento può da taluni esser considerato peggiore della morte, tanto da preferire il suicidio ad una separazione). Proporrei dunque di non adottare una determinata concezione della morte, ma semplicemente una psicologia delle reazioni agli eventi di vita (cioè una "psicologia dell'adattamento", perché di questo si tratta), cioè di considerare la morte come un evento tra i tanti, con i suoi significati particolari che variano da caso a caso. Come abbiamo visto, questi significati non sono universali ma dipendono da variabili del paziente (età, aspettative, struttura psichica, valori, ecc.) e anche dell'operatore (suo modo di concepire la morte, sua ideologia, suoi lutti subiti, sue difese, ecc.). L'adozione di una normale psicologia dell'adattamento si presta maggiormente ad essere utilizzata in un'epoca di "pluralismo etico" quale è l'attuale, in quanto rispetta i significati che ciascuno dà alla morte ed agli altri eventi della vita. Essa ha inoltre il vantaggio di fornire un inquadramento generale all'approccio anche verso altre situazioni cliniche, senza rinchiuderci nel vicolo cieco di una determinata tecnica. In questo senso, parafrasando il titolo di questo scritto, potremmo allo stesso modo chiederci "che cosa si dice a un paziente non terminale", cioè quali sono i significati che egli attribuisce agli eventi della propria vita, qualunque essi siano, dai più piacevoli ai meno piacevoli. Abbiamo detto che una delle variabili importanti da cui dipende l'approccio alla morte è la teoria alle spalle dell'operatore, la quale può essere anche espressione del suo sistema di valori o di credenze (i quali a loro volta possono dipendere dal grado con cui ha risolto determinati conflitti, quindi dalle sue difese). Vediamo brevemente alcuni esempi che possono essere espressione di diverse tanatologie, rispettivamente quella freudiana, quella antropofenomenologica, e quella religiosa. Freud credeva in una tanatologia secondo la quale nessuno nel profondo crede nella propria morte, della quale abbiamo sempre paura così come il bambino ha paura del buio. Sarebbe insomma una mistificazione accettare la morte come parte della vita, perché nel profondo tutti noi ci ribelliamo ad essa e vorremmo vivere in eterno. Alcuni psicoanalisti inoltre possono interpretare la morte come "qualcos'altro", ad esempio come una castrazione o una separazione dalla madre: dietro vi è l'assunto che esistano determinate pulsioni primarie universali che si oppongono alla morte, alle separazioni, ecc. Una siffatta interpretazione della morte può avere un effetto benefico in alcuni casi, ma un effetto ansiogeno e peggiorativo in altri perché può trasmettere inconsciamente al paziente la sensazione che il terapeuta si difenda nei confronti della morte, come se dovesse negarla e spostarla su qualcos'altro tramite l'interpretazione. Altri psicoanalisti invece adottando un'altra tanatologia, e ritengono che la morte possa essere accettata dall'individuo come parte naturale della vita, non postulano cioè una paura universale della morte. Oggi cioè molti non credono più che i significati della morte debbano essere interpretati secondo schemi precostituiti, eppure va ricordato che la morte, così come qualunque altro evento, in un certo senso va sempre "interpretata" per essere elaborata, ridimensionata e accettata all'interno della nuova struttura di significati del paziente. Ad esempio, una frequente fantasia riguardo alla propria morte prematura è che essa ci viene data come giusta punizione per determinati nostri comportamenti (per la tossicomania, per un comportamento sessuale vissuto come illecito, oppure, come è tipico della fantasia di castrazione "edipica", anche per un successo nella vita o nella carriera vissuto come proibito). Interpretare al paziente queste dinamiche può aiutarlo molto, ad esempio diminuendo il suo senso di colpa. La mente umana, fin da quando siamo piccoli, ha sempre la tendenza a costruire significati, a instaurare connessioni causali tra gli eventi per dare loro un senso: una delle cose più difficili da accettare è che certi eventi non sono spiegabili, che sono fuori dal nostro controllo. Pensare che è "colpa nostra" è anche rassicurante perché ci dà una illusione di onnipotenza (come se ci dicessimo: "se sono io a causare la morte, posso anche eliminarla"). Se guardiamo invece all'approccio antropofenomenolgico (ad esempio quello di Binswanger), viene data l'indicazione di accettare la morte in quanto tale, cioè come fenomeno che non va interpretato ma semplicemente "vissuto" assieme al paziente; questo approccio può essere di grande giovamento, aiutando molti pazienti ad accettare la realtà che hanno di fronte senza utilizzare altre difese. E' anche possibile però che alcuni pazienti non siano capaci di entrare in contatto col sentimento della propria morte, e che abbiano un assoluto bisogno di negarla. L'antropofenomenologo in questo caso dovrebbe saper rispettare il mondo interno del paziente senza imporre proprie verità. Infine, la tanatologia religiosa può confortare il paziente dandogli la speranza di una vita ultraterrena, per cui la paura della morte come interruzione di tutto può essere molto alleviata se non addirittura eliminata. Ma una rassicurazione religiosa può avere un effetto paradossale in un non credente se questi vi legge un tentativo di negare un evento che lui si sente pronto ad accettare (si ricordino le imprecazioni de Lo straniero di Camus [1942] che non si sentì affatto capito dal sacerdote che voleva consolarlo prima della sua esecuzione capitale). Prima abbiamo visto che di fronte alla propria morte il paziente può reagire con determinate difese (come la negazione), così come avviene nel tipico percorso di chi subisce un lutto (prima una negazione, poi momenti alternanti di disperazione e indifferenza, poi una depressione di alcuni mesi, e infine eventualmente una accettazione e un maggiore adattamento). In tutti questi casi si tratta sempre del lavoro psicologico che il paziente deve fare per riaggiustare i suoi schemi mentali, consci e inconsci, i suoi piani di azione, le sue aspettative, e rinunciare a desideri che prima aveva. Come ci ha insegnato la psicologia del lutto [S. Freud, Lutto e melanconia, 1915, OSF, 8, pp. 102-118], è necessario un tempo ben preciso affinché il soggetto riesca a portare a termine questo lavoro psicologico e ad adattarsi alla sua nuova realtà. Così come la cicatrice di una ferita cutanea necessita di un determinato tempo per rimarginarsi, allo stesso modo una ristrutturazione dei significati della nostra esistenza necessita di un tempo (in genere più lungo di quello necessario per una ferita fisica) per renderci disponibili a nuovi progetti o aspettative (le nostre mappe neuronali sono plastiche, ma hanno i loro tempi). In tutti i casi, l'operatore deve fare una valutazione dell'equilibrio difensivo del paziente e dargli il giusto aiuto nell'imprimere una direzione al processo affinché avvenga nel più breve tempo e nel modo meno doloroso possibile, rimuovendo gli ostacoli che si possono frapporre (distorsioni cognitive, fraintendimenti, illusioni, modificazione di valori o trasmissione di nuovi valori più adattivi di quelli precedenti, e così via). Psicoanalisi o psicoterapia? Vorrei finire toccare il problema delle cosiddette indicazioni terapeutiche, dato che viene posto spesso da autori che affrontano il tema dell'approccio al paziente terminale. Alcuni si pongono il problema delle indicazioni e controindicazioni della psicoanalisi versus psicoterapia espressiva o supportiva per i pazienti terminali. Vi è anche chi discute se sia appropriata una qualunque forma di psicoterapia. A mio parere questi ragionamenti nascondono dei fraintendimenti della teoria della tecnica psicoanalitica, basati su una concezione ormai superata. Come ho scritto più volte (anche sulle pagine del Ruolo Terapeutico, ad esempio nei numeri 59/1992, 60/1992, 69/1995 e 86/2001), il problema non è quello di cosa si deve fare, ma di cosa si può fare. E' il paziente che ci impone la tecnica a seconda del suo assetto psicologico (tipico è il caso dei pericoli della interpretazione della difesa della negazione, nella prima fase del modello descritto prima). Ma il problema non riguarda solo l'approccio al giovane terminale, in quanto è identico a quello affrontato, nella storia della psicoanalisi, per i pazienti non considerati i "classici nevrotici" (cioè gli psicotici, i borderline, gli adolescenti, ecc.): anche in questo caso la questione non va posta nei termini di fare o non fare la psicoterapia, o di fare la psicoterapia o la psicoanalisi, ma di adattare la psicoanalisi a seconda dei vari ostacoli e problemi che si presentano. Allo stesso modo un paziente adulto nevrotico può non tollerare una minima ferita all'autostima ed impedirci di analizzare una sua difesa per un certo periodo dell'analisi. Il problema delle indicazioni, a questo riguardo, si riduce alla scelta di quanto tempo dedicare al paziente (quanti colloqui settimanali, o eventualmente quante visite domiciliari), e ciò dipende da fattori logistici, oltre che soggettivi, di entrambi paziente e operatore (quanto tempo e quali interventi entrambi paziente e operatore possono permettersi, data la rispettiva strutturazione emotiva e culturale). Queste tematiche erano già implicite in psicoanalisi nella prima metà del secolo nelle formulazioni della Psicologia dell'Io (l'analisi delle difese, il punto di vista adattivo, ecc.). Alcuni autori recenti (come ad esempio Gill: Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione. In: Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicologia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157, pubblicato su Internet al sito http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm), sulla scia degli psicoanalisti della scuola interpersonale, hanno perfezionato queste teorizzazioni proponendo un abbattimento della barriera tra psicoanalisi e psicoterapia. Per un approfondimento di questa problematica, rimando al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995. Bibliografia Barbanel L. (1989). The death of the psychoanalyst (Panel presentation): Introduction. Contemporary Psychoanalysis, 25, 3: 412-419. Blechner M.J. (1993). Psychoanalysis and HIV disease. Contemporary Psychoanalysis, 29, 1: 61-80. Bonfà F. (1990a). Una esperienza di psicoterapia di gruppo con ex-tossicodipendenti sieropositivi all'HIV. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXIV, 3: 699-715. Bonfà F. (1990b). Percorsi di elaborazione psicologica dell'infezione da HIV in ex tossicodipendenti. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXIV, 3: 1057-1068. Bonfà F. & Bonfà Granata G. (1989). Alcune considerazioni sul riverbero emoivo dell'infezione da HIV in tossicodipendenti ed ex tossicodipendenti. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXIII, IV: 994. Callen M. (1991). Surviving AIDS. New York: Harper Collins. Campione F. (1986). Guida alla assistenza psicologica del malato grave. Ama il prossimo tuo come se stesso. Bologna: Pàtron. Campione F. & Palmieri M.T., a cura di (1986). Dialoghi sulla morte. Bologna: Cappelli. Camus A. (1942). L'étranger (trad. it.: Lo straniero). Costa P. & VandenBos G., editors (1990). Psychological Aspects of Serious Illness. Washington, DC: American Psychological Association. Edison T., editor (1988). The AIDS Caregiver Handbook. New York: St. Martin's Press. Eissler K.R. (1955). The Psychiatrist and the Dying Patient. New York: International Universities Press. Freud S. (1915a). Lutto e melanconia. In: Opere di Sigmund Freud, 8. Torino: Boringhieri, 1976, pp. 102-118. Freud S. (1915b). Noi e la morte. 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