Il Ruolo Terapeutico, 1994, 65: 40-44
Paolo Migone
Nel corso del 1993 sono stato invitato a tenere una decina di incontri di supervisione agli operatori di un Centro di Igiene Mentale di Genova (la USL 12/Genova III, SSM di Via Peschiera 10), e nel corso di questi incontri abbiamo rivisitato vari aspetti dell'annoso problema della psicoterapia nei servizi pubblici. Per la verità la richiesta originaria per cui fui chiamato in questa USL fu quella di aiutarli ad organizzare un servizio di psicoterapia breve: questa richiesta rispondeva in parte alle esigenze degli amministratori (ai quali in questo modo poteva essere meglio legittimata la proposta di invitarmi), e in parte alle esigenze degli operatori stessi che da tempo erano sensibili alle problematiche della psicoterapia nei servizi pubblici e che volevano verificare se la psicoterapia breve poteva essere uno strumento utile, sia a livello teorico che pratico, per rispondere almeno ad alcuni dei problemi che incontravano nel loro contesto di lavoro. Questi incontri sono stati molto stimolanti, e mi hanno permesso di riaffrontare uno per uno alcuni luoghi comuni legati alle supposte differenze tra la pratica della psicoterapia nel pubblico e nel privato. La mia posizione critica nei confronti della psicoterapia breve era ben nota a questi operatori, che prima della nostra serie di incontri si erano preparati leggendo vari articoli sull'argomento, tra cui la mia critica teorica alla concezione "radicale" delle terapie brevi [vedi il cap. 3 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995; vedi anche l'articolo "Le terapie brevi ad orientamento psicoanalitico: origini storiche, principali tecniche attuali, discussione teorico-critica, ricerche sull'efficacia, formazione". Psicoterapia e Scienze Umane, 1988/3: 41-67; una versione è apparsa anche in Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicologia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 161-185; un interessante dibattito critico sulle terapie brevi è avvenuto nella lista di discussione "Psicoterapia" (PM-PT), al sito http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/ter-brev.htm. Un altro articolo di critica al concetto di terapia breve è il seguente: Migone P., Terapeuti "brevi" o terapeuti "bravi"? Una critica al concetto di terapia breve. Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX, 3]. Non mi è stato difficile dunque rifiutare di aiutarli a costruire tout-court un servizio, o una "bottega", di psicoterapia breve, in quanto ritenevo che questa scelta fosse pericolosa e che in quanto tale andasse prima interpretata, cioè che bisognasse prima discutere a fondo vari problemi connessi al significato della pratica psicoterapeutica in generale. I fraintendimenti e i luoghi comuni sono molto frequenti non solo riguardo alle differenze tra psicoterapia pubblica e privata, ma anche riguardo alla differenza tra psicoterapie brevi e lunghe. Ritenevo insomma che il modo migliore per rendermi utile fosse quello di aiutarli a riflettere sul significato della psicoterapia in senso lato, e sulla teoria che guida il nostro lavoro: sono convinto che se comprendiamo meglio la teoria che ci guida riusciamo poi a muoverci con molta più facilità tra terapie bervi o lunghe, e tra contesti pubblici o privati, superando tutte queste false dicotomie e i vicoli ciechi rappresentati dalle cosiddette "tecniche". Alla fine dei nostri incontri abbiamo pensato di elencare in una serie di punti alcuni dei problemi che abbiamo discusso, quasi per avere qualcosa di concreto in mano, e affinché questi punti potessero essere oggetto di riflessione in futuro da parte di questi ed eventualmente anche di altri operatori. Ho quindi elencato una serie di problemi, lasciandoli in parte volutamente aperti, soprattutto per fornire degli stimoli di riflessione. Si tratta quindi di una bozza provvisoria. Anche se questo documento è stato scritto da me, esso si giova delle discussioni fatte insieme agli operatori, che voglio ringraziare per tutti gli importanti stimoli che mi hanno dato; i partecipanti, in ordine alfabetico, erano Fausto Aldini (che si è gentilmente prestato a fungere da coordinatore del gruppo), Tiziana Cavanna, Maria Grazia Como, Laura Lattanzi, Barbara Masini, Franca Mottoni, Franca Pezzoni, Anna Proface, Daniela Ratti, Rita Sciorato, e Giovanni Scotto. Voglio ringraziare anche il primario del Servizio, dr. Roberto Ghirardelli, che col suo supporto ha reso possibile questa iniziativa di supervisione. Dato che la problematica della psicoterapia nei servizi pubblici è sempre stata oggetto privilegiato di riflessione da parte del Ruolo Terapeutico, ho pensato che potrebbe essere utile pubblicare questo documento nella mia rubrica. Non mi è chiaro infatti quanto le osservazioni da noi fatte siano scontate per tutti, e quanto invece possano esservi posizioni differenti. Il documento di Genova L'idea della costituzione di un servizio di psicoterapia breve in un Centro di Igiene Mentale apre una serie di problemi che devono essere discussi. Innanzitutto va esaminato il concetto di psicoterapia breve e che cosa esso richiama nell'immaginario professionale e degli utenti, a quale cultura esso faccia riferimento, che tipo di valori porti con sé, a quale tipo di esigenze esso si proponga di rispondere. Dietro a questo problema vi è un problema più generale, quello della pratica della psicoterapia nei servizi pubblici (la psicoterapia breve fa direttamente parte del problema più generale della psicoterapia nei servizi pubblici), e se e come possa essere diversa da quella praticata nel privato. Un modo di procedere è quello di partire dalla elencazione di una serie di problemi, per scomporli ed analizzare che tipo di altri problemi siano nascosti dietro ad essi. 1) Significato di "psicoterapia breve" Per "psicoterapia breve" si intende essenzialmente porre all'inizio della terapia un limite di tempo prefissato (per brevità, rimando qui alle argomentazioni dell'articolo prima citato, uscito su Psicoterapia e Scienze Umane, 1988/3). Ma quale è la teoria della tecnica della psicoterapia breve? Se è vero che si può aiutare un paziente con una terapia breve, perché allora si fanno le terapie lunghe? Se si è lavorato bene, perché non si interrompe la terapia semplicemente quando il paziente è migliorato? Il fatto è che l'interruzione prefissata, così come in una terapia lunga la decisione di interrompere contro (o in accordo con) la volontà del paziente, sono interventi che fanno parte dell'armamentario tecnico di ognuno, interventi che possono avere un determinato significato (terapeutico e controterapeutico) a seconda del processo che intendiamo sviluppare col paziente. 2) La psicoterapia breve come una delle soluzioni possibili per il servizio pubblico Stabilito quindi che non sono affatto chiari i motivi "interni alla teoria" per i quali si dovrebbe fare una terapia breve, di fatto le terapie brevi in genere vengono fatte per motivi "esterni alla teoria". Ad esempio una delle situazioni più frequenti in cui vengono fatte terapie brevi è il setting di ricerca: dato che è molto difficile studiare le terapie lunghe, spesso si lavora sulle terapie brevi, istituendo programmi di terapia breve in cui vengono inseriti tutti i pazienti del campione prescelto, utilizzando cioè un criterio "esterno". Ma anche in un Servizio Pubblico può aver senso istituire un servizio di terapia breve nel caso sussista un problema reale "esterno": se vi sono molti pazienti in lista di attesa, cioè per non discriminare alcuni pazienti dagli altri. Ma, anche in questo caso, come ci si comporta con quei pazienti che alla fine della terapia breve non stanno bene, o sono peggiorati, e chiedono di continuare? Come si risolvono le implicazioni etiche in questi casi, implicazioni che devono essere tenute in considerazione ancor maggiore in un servizio pubblico? Non si rischia cioè di ricadere in un normale servizio di psicoterapia, in cui di volta in volta si affrontano i problemi con la solita teoria della tecnica, con l'aggiunta di tener presente ed eventualmente di dire ai pazienti (cioè farne parte delle regole di base del setting) che in un servizio pubblico si cerca di fare terapie "non troppo lunghe" per gli ovvi motivi di limiti di tempo e di personale? Questo elemento del setting (che in certi casi può differenziare la psicoterapia pubblica da quella privata) deve però essere attentamente discusso ed analizzato, perché presta il fianco a svariati utilizzi controtransferali: il paziente deve cioè ricevere il chiaro messaggio che questa esigenza di brevità è del servizio pubblico, non del singolo terapeuta, il quale in un servizio pubblico è più facilmente esposto alla tentazione controtransferale di "sganciare" i pazienti difficili con questa scusa (in questo senso, i pazienti "difficili" rischiano di risultare ottimi candidati per una terapia breve!). 3) La psicoterapia nei servizi pubblici Questo problema ci porta ad affrontare un altro punto, quello della pratica della psicoterapia nei servizi pubblici, e cioè, più esattamente, di cosa si intenda per psicoterapia nei servizi pubblici, se e come la psicoterapia nel pubblico possa essere diversa da quella praticata nel privato. Questo problema è spesso trattato tramite una ricca serie di luoghi comuni e stereotipi culturali. Ad esempio: si dice che la psicoterapia nel privato è "migliore" da quella nel pubblico. Ogni fenomeno può essere diverso da un altro, ma questa affermazione non ci dice gran ché se non si specifica bene quali sono le differenze. E qui nascono le difficoltà di andare oltre i luoghi comuni. Vediamo allora alcuni di questi luoghi comuni. Il primo luogo comune è che la psicoterapia "vera e propria" non sia fattibile nel servizio pubblico, ma solo nel privato. Questa concezione sostanzialmente sottende l'idea che certe caratteristiche del setting privato (maggiore privacy, maggiore contrattualità, il pagamento, ecc.), cioè certe caratteristiche del setting siano intrinsecamente legate alla teoria della tecnica, e, in un modo feticistico, siano reificate quasi a "teoria". In sostanza, questo è lo stesso modo di ragionare che ha portato ad esempio alcuni a dire che la psicoanalisi "è solo quella fatta quattro volte alla settimana", o quella fatta "sul lettino". E' questo tipo di ragionamento quello che porta a dire che la psicoterapia privata è "migliore". Ma non solo: innanzitutto qui è implicita la errata assunzione che le psicoterapie nel privato, così come quelle nel pubblico, siano tutte uguali, innalzando così il setting pubblico (e quello privato) a categorie astratte. Il setting privato, una volta che si sia demolito il mito del setting classico e della tecnica classica (che notoriamente non sono mai esistiti se non negli articoli delle riviste classiche), presenta gli stessi tipi di problemi del setting pubblico, le stesse difficoltà a rispondere a certi problemi del paziente, soprattutto se grave (anche questo in realtà è uno stereotipo, in quanto i problemi teorici della tecnica dei pazienti gravi sono gli stessi di quelli non gravi, e ragionare per patologie è un modo di risolvere solo apparentemente il problema). Esaminiamo a questo proposito due situazioni tipiche, quali il disturbo frequente del colloquio (telefonate, operatori che entrano nella stanza, rumore, ecc.), la gestione dei pazienti che saltano le sedute. Riguardo al disturbo durante la seduta, questo può essere ridotto introducendo negli operatori una determinata cultura basata su un maggiore rispetto per i pazienti, nei limiti delle esigenze del servizio. E' un fatto comunque che molti analisti "classici" ricevono imperterriti le telefonate durante le loro sedute private: coloro che usano l'argomentazione del "disturbo" per sostenere la tesi secondo la quale la psicoterapia nel servizio pubblico è svantaggiata rispetto a quella privata, dovrebbero prima discutere come mai questi analisti si sentono liberi di rispondere al telefono mentre fanno analisi. Solo dopo questa discussione, si potrà affrontare il problema della supposta inferiorità della psicoterapia pubblica rispetto a quella privata. Non solo, ma nel setting pubblico un certo disturbo può facilmente essere dato per scontato e incluso negli elementi del setting (esterni alla volontà del terapeuta e non interpretabili - cioè nella categoria del "vero", per usare i termini di Codignola [Il vero e il falso, Boringhieri, 1977]), mentre il terapeuta privato che riceve anche una sola telefonata durante una seduta si pone nella seria difficoltà di giustificare questo disturbo. Riguardo alla seconda situazione, quella dei pazienti che saltano le sedute, nel privato come è noto si fa pagare il paziente per le sedute mancate, ma peccheremmo di ingenuità se credessimo che questo risolva tutti i problemi. Un solo esempio: a tutti sono noti quei pazienti che rappresentano per noi un impasse quando saltano troppe sedute come forma di resistenza, e sono sufficientemente ricchi da non avere il problema del pagamento (o comunque non si curano di questo), per cui siamo costretti ad usare altre tecniche per lavorare sul problema della motivazione, per analizzarla, tecniche che sono simili a quelle che vengono impiegate nel servizio pubblico dove ci possiamo sentire in balia della svalutazione difensiva del paziente nei nostri confronti quando salta molte sedute o viene in ritardo (ad esempio si può usare la tecnica di concedere un limite massimo di assenze pena l'interruzione del trattamento, e così via). Ma il problema della differenza tra psicoterapia pubblica e privata ne sottende un altro, che analizziamo adesso. 4) La fantasia che il servizio pubblico sia di "serie B" Esiste la fantasia (comune sia agli operatori che agli utenti) che il servizio pubblico sia di fatto meno privilegiato di quello privato, dove si ottengono prestazioni migliori. La realtà è che il servizio pubblico non è "inferiore" a quello privato, ma solo diverso (ma, come abbiamo visto, ciò ci dice poco fintanto che non si specifica quale è questa diversità), e al limite può risultare ad alcuni operatori più interessante di quello privato (per le sue difficoltà e per i problemi tecnici che presenta, perché permette di incontrare pazienti che non si rivolgerebbero mai a un privato, ecc.). Il pregiudizio che il servizio pubblico sia di fatto meno privilegiato di quello privato in alcuni casi è basato su elementi di realtà, ma ciò può essere usato difensivamente da entrambe le parti. I pazienti possono far leva sul senso di inferiorità degli operatori pubblici e svalutare il lavoro fatto, e spesso gli operatori rimangono incastrati in questo tipo di identificazioni proiettive (per il concetto di identificazione proiettiva, rimando al Ruolo Terapeutico, 1988/49, pp. 13-21). Il fatto poi che in questo problema vi siano elementi di realtà spaventa molti terapeuti dal fare una analisi accurata di questi fattori, essendone coinvolti (vergogna a dire che di fatto si sentono professionisti di serie B, perché hanno salari più bassi - a volte però questi svantaggi sono solo apparenti perché sono controbilanciati da una maggiore garanzia lavorativa). Peggiore comunque può essere la negazione difensiva di questi problemi dicendo che essi non esistono assolutamente. Questa problematica, in un servizio di psicoterapia (breve o non breve che sia) di un servizio pubblico, andrebbe affrontata e discussa molto esplicitamente, sia tra gli operatori nelle riunioni di équipe, che coi pazienti quando emerge (ovviamente col solito tatto, ad esempio una eccessiva esposizione di questi problemi ai pazienti può essere difensiva rispetto ad altre dinamiche). 5) Più in generale, cosa è la psicoterapia? Un altro problema connesso al precedente è cosa si intende per psicoterapia, sia in generale che nel servizio pubblico. Ad esempio, andrebbero discussi i concetti di "psicoterapia verticale" (le varie tecniche e supposte scuole, cioè le false separatezze, le "paranoie culturali", e anche la psicoterapia concepita come un qualcosa di diverso e separato dalla pratica psichiatrica complessiva) e di "psicoterapia orizzontale" (la psicoterapia come utilizzo del rapporto interpersonale nelle varie pratiche professionali, dal medico condotto, all'infermiere, all'educatore, allo psicoanalista, ecc. - cioè nello spirito di Balint - laddove lo psicoanalista, o lo psicoterapeuta che dir si voglia, utilizza il rapporto interpersonale in modo massimizzato ma qualitativamente simile). Per i concetti di psicoterapia "verticale" e "orizzontale" si vedano vari contributi di P.F. Galli [ad esempio "Psicoterapia, formazione e specialismo". In Minguzzi G.F., a cura di, Il divano e la panca. Psicoterapia tra privato e pubblico. Milano: Franco Angeli, 1986, pp. 242-245; "Psicoterapia in Italia: ieri e oggi", in Benvenuto S. & Nicolaus O., a cura di, La bottega dell'anima. Problemi della formazione e della condizione professionale degli psicoterapeuti. Milano: Franco Angeli, 1990, pp. 216-228; "Le ragioni della clinica". Psicoterapia e Scienze Umane, 1988/3: 3-8; "Conversazione su "La tecnica psicoanalitica e il problema delle psicoterapie". Il Ruolo Terapeutico, 1984/38: 6-10 (Ia parte), e 1985/40: 3-8 (IIa parte); ecc.]. Può essere molto utile qui fare riferimento anche alla revisione teorica di Gill [Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione. In Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicolgia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157] che permette ora di integrare coerentemente la psicoanalisi con la pratica psichiatrica complessiva, mettendo il concetto di "analisi della relazione" al centro del lavoro terapeutico, indipendentemente dal tipo di setting in cui si opera [vedi anche il mio articolo "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?", Il Ruolo Terapeutico, 1992/59: 4-14, e anche le mie rubriche sui numeri 60/1992, 78/1998, e 86/2001; per la bibliografia, si veda l'articolo "La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico del dibattito e recente posizione di Merton M. Gill". Psicoterapia e Scienze Umane, 1991/4: 35-65, e soprattutto il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995]. Va precisato comunque che la concezione allargata o "trasversale" della psicoanalisi di cui parla ora Gill ha le sue origini in Sullivan, che ne incominciò a parlare già dagli anni '20 (Sullivan parlava addirittura di una "psichiatria interpersonale", superando i confini della pratica della psicoanalitica in quanto tale), e nei contributi di Harold Searles, Frieda Fromm-Reichmann, e più in generale dalla tradizione interpersonale della cosiddetta "Washington School of Psychiatry" [vedi Il Ruolo Terapeutico, 59/1992, p. 7]. In Italia, queste posizioni erano sostenute, tra gli altri, da Gaetano Benedetti (che era stato in America dalla Frieda Fromm-Reichmann), e in modo più preciso a livello teorico da Galli, Codignola, ed alcuni altri esponenti del gruppo milanese dal quale poi nel 1967 nacque la rivista Psicoterapia e Scienze Umane. 6) Psicoterapia o "interventi psicosociali"? Altro tema, connesso al precedente e collegato a un nostro possibile modello teorico di riferimento, è quello della definizione dei concetti di "interventi psicosociali" versus "psicoterapia" in senso stretto: il problema è quello della maggiore o minore interiorizzazione delle strutture psichiche e della loro stabilità, della autonomia versus dipendenza dall'ambiente (cioè dal terapeuta come mago o stregone che opera il cambiamento mantenendo però una dipendenza del cliente da lui). Questo problema a livello teorico è stato ben affrontato dalla psicoanalisi (dove storicamente è stato utilizzato il concetto di insight come garanzia di autonomia dall'ambiente); si veda ad esempio il dibattito attorno al concetto di "esperienza emozionale correttiva" di Alexander del 1946 [lavoro che è stato ora tradotto su Psicoterapia e Scienze Umane, 1993/2: 85-101, e anche su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm]. Non si dimentichi che Alexander fu uno dei padri storici delle psicoterapie brevi. Si vedano anche i concetti di "cura magica" versus "cura razionale", discussi da Eissler nella sua dura critica ad Alexander [Eissler K.R., Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica (1950). Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, 3: 5-33 (I parte), e 4: 5-35 (II parte); questo lavoro è su Internet al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss50-1.htm]. Questa problematica è molto evidente nel settore della schizofrenia, e in particolare nella terapia familiare della schizofrenia, dove si è imparato ad intervenire sulla famiglia, modificando prevalentemente (o solo) quella, cioè l'ambiente, onde far star meglio il paziente, essendo difficile modificare direttamente il paziente data la sua grave patologia: questo è un tipico intervento "psicosociale" (esempio classico: la "psicoeducazione" dei familiari secondo il modello della Expressed Emotion [rimando qui alla mia rubrica "Quale psicoterapia per gli schizofrenici?", sul n. 48/1988 del Ruolo Terapeutico, in particolare pp. 32-33]). In certi casi, più che di categorie distinte, si può parlare di un continuum tra interventi supportivi ed espressivi (tanto per usare questi due termini adoperati dalla tradizione psicoanalitica), in quanto certi interventi psicosociali alla lunga mirano pur sempre a modificare il paziente in quanto tale, nel senso che ad interventi supportivi possono seguire interventi espressivi (nel caso comunque della psicoeducazione, quello a cui si mira in genere è semplicemente la riduzione delle ricadute schizofreniche misurata col tasso dei ricoveri, per cui i criteri per valutare il cambiamento qui sono di altro tipo, di natura sociologica). 7) Aspetti ideologici delle terapie brevi Tornando alle terapie brevi, andrebbe toccato un altro punto: il ruolo mitico, suggestivo, ideologico (sia per gli amministratori, che per gli operatori, che per l'utenza stessa) della esistenza di un servizio di terapie bervi, con la relativa promessa di guarigione, ecc. [vedi in particolare pp. 62-63 del mio articolo su Psicoterapia e Scienze Umane, 1988/3]. Detto in poche parole, questo è il "fenomeno Luordes": si crea un'aspettativa che poi di per sé è terapeutica. E' anche paragonabile al nuovo farmaco che esce, o al nuovo prodotto che viene immesso sul mercato della salute, con tutte le relative aspettative che crea. Sicuramente un servizio di psicoterapie brevi avrebbe anche l'effetto (positivo?) di attirare clienti. Viene data inoltre una immagine di efficientismo, "all'americana" (dove però il discorso è più legato alle esigenze delle case assicuratrici, mentre da noi è più prevalentemente ideologico). Più in generale, il problema qui è lo stesso di quello delle tecniche e della concezione "verticale" della psicoterapia: in altre parole, esisterebbero le psicoterapie brevi, poi la psicoanalisi, la sex therapy, i farmaci, il biofeedback, l'ipnosi, ecc., secondo un modello che si rifà alle specialità mediche e che è ben poco adatto alla pratica della psicoterapia (rimando qui al punto 5).
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