Il Ruolo Terapeutico, 1998, 78: 82-87
Paolo Migone
Il 7 marzo 1998 si è tenuto a Ravenna il 2° Seminario Regionale della Sezione Emilia-Romagna della Società Italiana di Psicoterapia Medica (SIPM), intitolato "La psicoterapia e il Dipartimento di Salute Mentale". Riporterò qui parte della relazione che ho tenuto a quel seminario, anche perché riprendo temi toccati altre volte in queste pagine (si veda ad esempio la mia rubrica del n. 1994/65 del Ruolo Terapeutico, intitolata "La psicoterapia nei servizi pubblici: in che modo è diversa dalla psicoterapia nel privato?", da cui ho riportato alcuni passaggi). La mia relazione, che si intitolava "Psicoterapia nel privato e psicoterapia nel pubblico: cosa implica, a livello teorico e pratico, considerarle 'diverse'?" (poi pubblicata nella rivista della AUSL di Ravenna, Frammenti, 1998, 7, 1: 20-33), aveva lo scopo di stimolare la riflessione sulle implicazioni che può avere una posizione secondo la quale la psicoterapia praticata nel pubblico è in un qualche modo "diversa" da quella praticata nel privato. La cornice teorica di riferimento usata è quella psicoanalitica, ma alcune delle argomentazioni possono essere utilizzate anche per altri approcci psicoterapeutici. La tesi di fondo è che il modo con cui si considera questa eventuale "differenza" tra psicoterapia privata e pubblica ha dirette implicazioni sulla correttezza della conduzione di una psicoterapia sia nel pubblico che nel privato, cioè ha implicazioni per il nostro modo di ragionare riguardo alla pratica della psicoterapia nel suo complesso. Spesso la questione della psicoterapia nel servizio pubblico viene trattata tramite una serie di luoghi comuni e stereotipi culturali. Ad esempio: vi è chi dice che la psicoterapia condotta nel privato è "migliore" da quella condotta nel pubblico. Ogni fenomeno può essere diverso da un altro, ma questa affermazione non ci dice gran ché se non si specifica bene quali sono le differenze. E qui nascono le difficoltà di andare oltre i luoghi comuni. Vediamone allora alcuni. Il primo luogo comune è che la psicoterapia, e soprattutto la terapia psicoanalitica, non sia praticabile nel servizio pubblico, ma solo nel privato. Questa concezione sostanzialmente sottende l'idea che certe caratteristiche descrittive del setting privato (maggiore privacy, maggiore contrattualità, il pagamento, ecc. - tanto per citarne alcune) siano parte insostituibile della tecnica. In sostanza, questo è lo stesso modo di ragionare che ha portato ad esempio alcuni a dire che la psicoanalisi "è solo quella fatta quattro volte alla settimana", o quella fatta "sul lettino". E' questo tipo di ragionamento quello che porta a dire che la psicoterapia privata è "migliore". Vediamo meglio quali sono le implicazioni sottostanti a questi ragionamenti. Coloro che ritengono che la psicoterapia nel pubblico sia qualitativamente "diversa", se non addirittura impossibile, attribuiscono un significato univoco alle caratteristiche del setting. Questo significato del setting viene dato dal terapeuta, e (con quella che potrebbe sembrare una proiezione) si assume che sia anche quello dato dal paziente, senza cercare di vedere attentamente quali sono le sue specifiche reazioni idiosincrasiche (legate al suo back-ground culturale, a quello che sa della psicoterapia o del servizio che gli viene fornito, o che gli viene detto ai colloqui preliminari che ha avuto, ecc.). L'operazione insomma che viene fatta è quella di attribuire un significato a priori, univoco, ad un determinato setting, dimenticando che ogni setting, così come ogni intervento del terapeuta, acquista significato per il paziente solo alla luce della struttura dei significati del suo mondo interno. Tutti sappiamo, e numerose ricerche lo hanno dimostrato, che a seconda del tipo di rapporto avuto con i genitori e delle esperienze precedenti in generale, l'ambiente terapeutico può essere vissuto in modi straordinariamente diversi: un terapeuta corretto può essere vissuto come scorretto (e viceversa), alcuni pazienti non si trovano a proprio agio proprio quando sono con un terapeuta che cerca di metterli a proprio agio, e così via. Alcuni pazienti percepiscono il lettino con paura e rifiutano di utilizzarlo, altri ancora non vedono l'ora di raggomitolarvisi difensivamente per evitare il contatto visivo col terapeuta (ed è ovvio che sarebbe un grosso errore interpretare solo il primo comportamento come una resistenza). La stessa cosa può dirsi della frequenza settimanale, che non ha lo stesso significato per tutti, e della durata della terapia [rimando qui alla mia rubrica del n. 68/1995 del Ruolo Terapeutico]. Il ritenere che il significato di un qualunque intervento sia solo quello di facciata (quello che appare, ovviamente agli occhi del terapeuta) è un ragionamento che, a ben vedere, non appartiene alla psicoanalisi ma ad una psicologia che potremmo chiamare "comportamentistica", niente di più lontano quindi dalla psicoanalisi. In altre parole, mentre lo scopo della psicoanalisi è interpretare il significato di quello che succede in terapia, al fine di comprendere il modo interno del paziente e i motivi per cui ha strutturato una determinata patologia, riguardo invece ai significati che assume il setting, per motivi complessi che in parte discuteremo dopo, vi è la tendenza a fare eccezione: questi significati sono univoci, non sono interpretabili, il modo con cui il setting viene vissuto dal paziente deve essere deciso dal terapeuta. E dato che la psicoanalisi è nata in un preciso contesto storico (nella pratica privata, in una determinata cultura, ecc.), secondo questa logica il setting ideale della psicoanalisi deve essere per esempio caratterizzato da un rapporto privato, dall'uso del lettino, da 4 o 5 sedute settimanali, e così via. Per fare un esempio: se secondo uno stereotipo il setting pubblico è precario, privo di segretezza professionale, inaffidabile, ecc., tanto da non permettere al paziente di aprirsi ed iniziare quello che viene chiamato "processo psicoanalitico", può essere che un paziente, a causa di un determinato retroterra culturale (cioè il suo transfert) viva in questo modo proprio il setting privato. E comunque ogni aspetto del setting pubblico, anche se interferisce per così dire "negativamente", acquista significati specifici, diversi da paziente a paziente; il partire con delle idee preconcette (come il ritenere che la psicoterapia nel pubblico sia necessariamente diversa da quella nel privato) rischia di non farci cogliere queste sottili differenze. L'altra faccia della medaglia (e qui arrivo a parlare delle importanti implicazioni di cui parlavo prima) è che questi stereotipi, questa teoria della tecnica così come ci è stata tramandata da una certa tradizione, possono portarci a condurre non correttamente anche una psicoterapia nel privato, cioè a fare veri e propri errori tecnici, nella misura in cui cioè noi attribuiamo significati aprioristici universali a quello che dovrebbe essere il transfert del paziente. Ci si potrà chiedere come mai vi sono questi fraintendimenti, dove sono nati, e qui occorre aprire una parentesi e accennare ad alcune teorizzazioni della psicoanalisi classica che hanno contribuito a crearli. Secondo una certa concezione psicoanalitica (come quella espressa chiaramente, tra gli altri, da Ida Macalpine nell'articolo del 1950 "Lo sviluppo della traslazione" [in: Genovese C., a cura di, Setting e processo psicoanalitico. Milano: Cortina, 1988]) vi sarebbe uno stretto legame tra metodo analitico e setting psicoanalitico classico, nel senso che sarebbero proprio determinati aspetti formali della terapia (il lettino, le sedute frequenti, la costanza dell'ambiente, ecc.) quelli che costituirebbero un "setting infantile" che sarebbe all'origine di fenomeni quali la "nevrosi di transfert" e la "regressione", indispensabili al processo analitico in quanto costituiscono proprio quei fattori che devono poi essere elaborati ed interpretati nel corso dell'analisi. Ma le implicazioni di questa concezione sono quelle di attribuire un significato univoco, generalizzabile a tutti i pazienti, al concetto di "transfert" (quello classico, appunto), e a tutti gli altri aspetti del processo analitico. Si potrebbero così delineare due diverse posizioni teoriche: una, secondo la quale un determinato setting analitico (nella fattispecie, quello classico o privato) è la condizione necessaria ed esclusiva che permette la messa in moto del processo analitico (e quindi l'emergere del transfert, che in quanto tale non si manifesterebbe al di fuori della terapia o in terapie diverse da quella psicoanalitica classica); l'altra posizione, secondo la quale invece il transfert non sarebbe esclusivo della psicoanalisi, ma un fenomeno naturale che si manifesta in ogni tipo di setting terapeutico, oltre che in svariate situazioni umane (dai rapporti interpersonali, all'innamoramento, ecc.) e che nell'analisi verrebbe "massimizzato", o semplicemente "analizzato", cioè sottoposto a maggiore attenzione che altrove (per un approfondimento, rimando a). Sappiamo che Freud riteneva che il transfert non fosse specifico della psicoanalisi (e tanto meno di un particolare tipo di atteggiamento analitico classico, che peraltro lui non praticò mai), ma di ogni situazione umana. Non solo, ma vi è una contraddizione intrinseca nella posizione classica espressa dalla Macalpine. Il "setting infantile" di cui lei parla servirebbe a far emergere il transfert, un transfert che viene concepito come ripetizione del passato dell'infanzia, come puro, come contaminato il meno possibile dalla realtà esterna, allo scopo poi di interpretarlo correttamente. Come ha ben dimostrato, tra gli altri, Gill - le cui posizioni hanno una portata veramente rivoluzionaria e ricca di implicazioni per la terapia psicoanalitica nel setting pubblico - se noi vogliamo ricreare un transfert "puro e incontaminato", perché allora, come prevede la concezione classica della Macalpine, cerchiamo di provocarlo attraverso un "setting infantile", cioè con una suggestione o una manipolazione? L'atteggiamento analitico non sarebbe allora "neutrale", e in questo modo il transfert non sarebbe puro, ma innanzitutto una risposta "infantile" a questo setting volutamente infantilizzante. Questo "transfert infantile" sarebbe un sintomo iatrogeno, e, con buona pace dello psicoanalista ortodosso, la psicoanalisi sarebbe una psicoterapia manipolatoria, concettualmente simile all'ipnosi [per un approfondimento delle posizioni di Gill, rimando al suo articolo del 1984 "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione", in: Del Corno F. e Lang M., a cura di, Psicolgia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157; vedi anche il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995]. La concezione della Macalpine si riferisce alla nozione di buon senso secondo la quale per meglio analizzare il transfert sarebbe utile "massimizzarlo" con un setting o atteggiamento appropriato da parte dell'analista. Qui l'errore, secondo Gill, non è tanto quello di voler massimizzare il transfert, quanto il credere che ogni tentativo di massimizzarlo (ad esempio le regole classiche come il lettino, ecc.) favorisca l'emergere di un transfert più "puro" di un altro, o comunque una "vera" ripetizione del passato. Si tratta invece di uno dei possibili transfert che possono essere evocati. Questo è da sempre stato compreso da molti autori (tra i quali si possono citare Weiss, Sampson, e i loro collaboratori del San Francisco Psychotherapy Research Group - vedi a questo proposito le mie rubriche nei numeri 62/1993 e 68/1995 del Ruolo Terapeutico) che, anche sulla base di dati di ricerca empirica, hanno mostrato come l'ambiente terapeutico non sia mai neutrale: è sempre "interpretato" dal paziente alla luce delle sue credenze patogene inconsce (cioè dal suo transfert), tanto che ad esempio in alcuni casi anche una terapia molto eterodossa potrebbe essere la più indicata per identificare e modificare una specifica credenza patogena. Ma allora ci possiamo chiedere: quale è il setting più appropriato per condurre una terapia? Non vi è modo di saperlo, perché il transfert esso è sempre modificato dalla realtà esterna. L'unica cosa che possiamo fare è esserne consapevoli, e accettare questa nostra influenza senza far finta che non vi sia e senza vergognarcene. Il nostro obiettivo è solo quello di scorgere eventuali eccessive rigidità dei pattern transferali che noi evochiamo, e chiederci come mai il paziente non abbia preferito altri possibili pattern comportamentali o emotivi. Questo tipo di investigazione è estremamente personale, ed è forse questo il motivo per cui ogni terapia è diversa dalle altre. La domanda non è "perché un paziente distorce" ma "perché non distorce in altri modi a cui possiamo pensare". Non dimenticherò mai una definizione che diede una volta Gill della "neutralità analitica", è la migliore definizione che io abbia mai sentito. Una volta provocatoriamente disse che sì, lui credeva nella neutralità analitica, ma la sua definizione di neutralità analitica era la seguente: un analista è veramente neutrale quando crede che non può mai esserlo, cioè quando è consapevole che vi sono infiniti modi con cui, anche inconsapevolmente, influenza il paziente. Solo così ha qualche possibilità di avvicinarsi, per così dire, alla prospettiva di diventare "neutrale". Ecco perché anche una analisi cosiddetta "classica" può essere una ottima analisi, nella misura in cui l'analista sia consapevole del suo contributo "infantile" allo sviluppo del transfert (se questo è il caso). Ed ecco perché una terapia nel privato, condotta secondo le regole canoniche, non è assolutamente diversa da una terapia nel pubblico dove vi possono essere molte infrazioni e inquinamenti rispetto a queste regole, nella misura in cui siamo consapevoli che entrambe le terapie hanno inevitabili aspetti manipolatori, intrinseci a qualunque rapporto umano. Anche quello che potremmo chiamare "setting adulto" esercita una suggestione a comportarsi in un modo adulto. La vera domanda, che dovrebbe essa stessa essere sottoposta ad (auto)analisi, è perché mai dovremmo proporci di indurre una reazione infantile (o, se è per questo, anche adulta) nei nostri pazienti. Vari autori (come Gill, ma anche Leo Stone) hanno messo in dubbio la necessità di indurre una regressione oltre a quella che eventualmente già presenta il paziente a causa della sua patologia. Ma a mio parere il fattore importante è il motivo per cui noi adottiamo una certa regola, il modo con cui la spieghiamo al paziente e soprattutto a noi stessi, la nostra capacità autoanalitica nel capire il motivo per cui scegliamo un determinato setting: se per ragioni difensive o per aiutare meglio il paziente. Il problema è che non possiamo conoscere, soprattutto all'inizio di una terapia, quale può essere il setting ottimale per un paziente, anzi, sarebbe antipsicoanalitico saperlo: significherebbe avere una idea a priori del "transfert ideale", di come esso dovrebbe essere. E' soltanto durante lo svolgimento della terapia che noi ci accorgiamo dei possibili significati del setting per entrambi e delle ragioni per aver scelto una regola o un'altra per quel particolare paziente, e del perché lui può aver reagito in un determinato modo. Probabilmente la spiegazione migliore che possiamo dare dell'uso del setting tradizionale è ammettere semplicemente al paziente che è così che abbiamo imparato dai nostri maestri, analisti e supervisori, questo è il modo con cui siamo abituati, o semplicemente col quale ci sentiamo più a nostro agio. Ma dovremmo essere sempre disposti a scorgere ulteriori significati inconsci o possibili ragioni controtransferali delle nostre decisioni. Freud (che a questo riguardo non fu mai un "freudiano") diede un bellissimo esempio - non solo di onestà, ma anche di coerenza teorica - quando giustificò l'uso del lettino dicendo che non sopportava di essere fissato negli occhi per otto ore al giorno [Freud S., Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi: 1. Inizio del trattamento (1913). Opere, 7: 333-352, p. 343]. Altri terapeuti amano guardare i pazienti negli occhi, sia per ragioni difensive che non difensive. Irwin Hoffman [Dialectical thinking and therapeutic action in the psychoanalytic process. Psychoanal. Q., 1994, 63: 187-218, p. 200], che fu lo stretto collaboratore di Gill, una volta ammise onestamente a un suo paziente (che era uno dei suoi casi in supervisione) il quale lo interrogava dei motivi per cui lui insisteva sulle quattro sedute settimanali, che era così che lui doveva fare se doveva diplomarsi in psicoanalisi - una ragione non proprio psicoanalitica, ma sicuramente onesta e coerente con la teoria. Credere che la psicoterapia nel pubblico sia diversa da quella nel privato implica dunque credere in una illusione, in un mito: che esista una tecnica "classica", standard, applicabile meccanicamente a tutti, pazienti di tutte le culture, razze e classi sociali, come se credessimo non solo nel setting classico, ma anche nel "transfert classico". Inoltre significa innalzare il setting privato (ma anche quello pubblico) a categorie astratte, scordando che vi sono enormi differenze tra una terapia e l'altra, e che a volte vi è molta più differenza (anche nei termini delle regole di base) tra due terapie private condotte con tutte le buone intenzioni, che tra una privata e una pubblica. Si scorda un'altra cosa fondamentale, cioè che quello che fa la differenza non è la tecnica che noi vogliamo adottare, ma quella che ci impone il paziente a causa della sua patologia. Questa problematica è emersa già ai primi decenni del secolo, e in misura crescente come implicazione della Psicologia dell'Io fin dagli anni 1930-40. Il mito che esista una tecnica classica serve, a scopo difensivo, a credere che c'è sempre qualcun'altro, non noi che non ci riusiamo mai, che fa le terapie perfette. Il setting privato, una volta che si sia demolito il mito del setting classico e della tecnica classica (che notoriamente non sono mai esistiti se non negli articoli delle riviste classiche), presenta gli stessi tipi di problemi del setting pubblico, le stesse difficoltà a rispondere a certi problemi del paziente, soprattutto se grave. Ma anche questo in realtà è uno stereotipo, in quanto i problemi teorici della tecnica dei pazienti gravi sono gli stessi di quelli non gravi, e ragionare per patologie è un modo di risolvere solo apparentemente il problema. Preferisco fermarmi qui, in questo discorso che è ovviamente complesso. Per un approfondimento, rimando al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, prima citato, e anche alla mia rubrica del n. 1994/65 del Ruolo Terapeutico, dove parlo anche di alcune difficoltà della psicoterapia nel pubblico e dei possibili modi per affrontarle. Per quanto riguarda invece il problema generale della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, vedi le mie rubriche dei numeri 59/1992, 60/1992, 65/1994, 69/1995, 73/1996 (intervento), 78/1998, 78/1998 (intervento), 86/2001 (intervento).
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