Il Ruolo Terapeutico, 1994, 67: 53-56
Paolo Migone
Pochi mesi fa è uscita l'edizione italiana del secondo volume del Trattato di terapia psicoanalitica di Helmuth Thomä e Horst Kächele [2: Pratica clinica (1988). Torino: Bollati Boringhieri, 1993]. Il primo volume [1: Fondamenti teorici (1985)] era uscito nel 1990. Si tratta di un libro importante (prova ne è anche il fatto che è stato subito tradotto in nove lingue), per la profondità e la vasta cultura con cui gli autori affrontano tutti i problemi della psicoanalisi contemporanea, in un momento in cui secondo alcuni è diventato ormai quasi impossibile dare un resoconto organico di questa frammentata disciplina. Le ambizioni di questo Trattato sono elevate: affronta tutte le problematiche di fondo della psicoanalisi, da quelle della sua fondazione filosofica e del suo statuto scientifico, a quelle della tecnica terapeutica, della ricerca empirica, della rivisitazione delle teorie freudiane, ecc. Non solo, ma in una cultura psicoanalitica in cui negli ultimi decenni i contributi nordamericani sono stati prevalenti in vari settori, vediamo con piacevole sorpresa che si affaccia, con il suo ricco bagaglio culturale, un contributo europeo (e per di più tedesco, con tutto quello che ciò comporta per la difficile storia della psicoanalisi europea durante e dopo la seconda guerra mondiale). Con un gruppo di colleghi di Bologna abbiamo discusso uno per uno, nel corso di un anno, tutti i capitoli del primo volume, facendo un "viaggio" attraverso i vari problemi della psicoanalisi contemporanea che ci ha affascinato e arricchito. In questa rubrica farò alcune riflessioni su questo libro, riportando l'intervento che ho letto il 16 aprile 1994 all'Università di Milano, in occasione dell'uscita del secondo volume, a una Tavola Rotonda con Dario De Martis, Giuseppe Di Chiara, Antonio Imbasciati, Gianpaolo Lai, ed Helmuth Thomä, e coordinata da Salvatore Freni, intitolata "La terapia psicoanalitica nella società contemporanea, tra esigenze di cura ed esigenze di verifica". L'intervento alla Tavola Rotonda Dato che questo secondo volume del Trattato è dedicato prevalentemente a resoconti clinici, vorrei partire dal problema della registrazione delle sedute, che è direttamente legato al tema del rapporto tra esigenze di cura ed esigenze di verifica in psicoanalisi, per poi fare considerazioni più generali sul ruolo del linguaggio nella ricerca psicoanalitica. Come sappiamo, Thomä & Kächele adottano ampiamente, assieme ad altri metodi di ricerca, la audioregistrazione delle sedute. In certi ambienti in passato vi sono state delle obiezioni sulla legittimità dell'uso del registratore all'interno delle sedute psicoanalitiche, per i significati che esso assume per entrambi paziente e terapeuta e per le alterazioni del cosiddetto "setting classico". Il registratore curiosamente è stato inventato più o meno quando è nata la psicoanalisi: esso infatti fu brevettato nel 1888, e il primo prototipo comparve alla esposizione della scienza di Parigi del 1900. Il problema del suo uso in psicoanalisi incominciò a porsi quando esso divenne disponibile su vasta scala, quindi circa dagli anni 1930-40, ma la relativa accettazione del registratore in psicoanalisi avvenne molto più tardi che in altre discipline, e questo a testimoniare la sospettosità con la quale il movimento psicoanalitico in generale si mosse nei suoi confronti. A tutt'oggi non tutti gli analisti hanno un atteggiamento aperto e recettivo verso l'impiego del registratore come strumento di ricerca. Viene sottolineato che esso violerebbe la privacy e la segretezza professionale, che potrebbe inibire lo sviluppo del transfert o della fiducia del paziente nell'analista. Ma per tanti anni non si è obiettato il fatto che l'analista, dietro alle spalle del paziente, potesse tranquillamente prendere nota delle parole del paziente, senza che a quest'ultimo venisse esplicitamente detto l'uso che verrà fatto di queste note, mentre invece il registratore (che tra l'altro lascia l'analista libero di seguire più attentamente le parole del paziente) viene collocato apertamente sul tavolo tra paziente e analista e lo si mette in funzione solo dopo averne serenamente spiegato al paziente i motivi del suo uso e chiesto il suo consenso. Questa diffidenza verso il registratore dà a volte l'impressione che certi psicoanalisti risentano come di una cultura Amish, ostile al progresso tecnologico e che vede il registratore come uno "strumento del diavolo". Terapeuti di altri orientamenti hanno infatti anticipato il movimento psicoanalitico nell'uso del registratore: a quanto mi risulta, il registratore fu usato sistematicamente, prima che dagli psicoanalisti, dai rogersiani in America nelle loro pionieristiche ricerche sui fattori curativi. Anche per l'uso di altre strumentazioni tecniche, come il videoregistratore, gli psicoanalisti sono stati anticipati dagli esponenti di altre scuole, come i terapeuti familiari che ne hanno fatto ampio uso, e anche certi terapeuti brevi, e lo specchio unidirezionale ancora viene usato raramente in psicoanalisi (vi sono rare eccezioni: io stesso nel mio training negli Stati Uniti assistetti a una lunga tranche di psicoanalisi da parte di un didatta, dietro allo specchio unidirezionale). Tra coloro che si mostrarono disponibili all'uso del registratore, va ricordato Gill, che con alcuni collaboratori negli anni 1960 scrisse un lavoro [pubblicato in due parti sul Journal of the American Psychoanalytic Association nel 1968 e nel 1970], in cui esamina approfonditamente tutte le implicazioni e le resistenze all'uso del registratore in psicoanalisi. Le motivazioni teoriche contro l'uso del registratore si basano sulla concezione secondo la quale possa esistere un "setting classico", anonimo e neutrale, adatto a far emergere un "transfert incontaminato", pura espressione del passato del paziente, non influenzato dal presente e dalla influenza del terapeuta. Il registratore potrebbe inibire l'espressione della purezza del transfert, e quindi ne impedirebbe una analisi approfondita, e così via. Molti autori (tra cui lo stesso Gill che aveva analizzato le implicazioni all'uso del registratore - si veda soprattutto l'importante articolo di Gill dl 1984 "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione", pubblicato anche su Internet al sito https://www.priory.com/ital/10a-Gill.htm), sulla scia delle intuizioni avute già molti anni prima da Sullivan e altri, ora vedono il processo analitico in modo profondamente diverso: non esiste alcuna possibilità di far emergere un transfert puro, in quanto esso è sempre condizionato dal setting che propone l'analista, qualunque esso sia [vedi il mio articolo "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?", Il Ruolo Terapeutico, 1992/59, e anche la mia rubrica nel numero successivo, 1992/60, "Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia", nonché le rubriche sui numeri 69/1995 e 86/2001]. Ignorare ciò, e credere in un "setting classico", non fa altro che permettere alla suggestione involontaria e onnipresente di qualunque setting che essa agisca senza accorgersene, e quindi senza che venga analizzata in modo ottimale. Qualunque elemento di ogni setting ha un effetto che va analizzato, che dipende dal singolo paziente. Ad esempio, chiedersi che impatto può avere per un paziente l'uso del registratore ha lo stesso valore del chiedersi che impatto può avere il non utilizzarlo. La stessa cosa vale per il lettino, la nostra richiesta di una certa frequenza settimanale, un nostro eventuale silenzio o intervento, ecc. Se invece si attribuisce concretamente ad un determinato setting (come a quello "classico") un significato universale, a prescindere dai significati specifici dati dal paziente, possiamo dire che si compie una operazione antipsicoanalitica nella misura in cui viene limitata l'analisi di questi significati specifici. Direi quindi che la domanda più interessante che possiamo porci è come mai tanti analisti hanno accettato l'uso del registratore con così tanto ritardo, e come sia stato possibile che la trasmissione della teoria della tecnica psicoanalitica abbia permesso questi fraintendimenti per così tanti anni. In questo senso il Trattato di Thomä & Kächele ha l'effetto di una ventata di aria fresca, chiarendo molti equivoci e fuorvianti dogmatismi che hanno accompagnato buona parte della tradizione psicoanalitica. Posto quindi che l'uso del registratore in quanto tale non ostacola il processo psicoanalitico, esso invece può essere utile per un certo tipo di ricerca. Ma quale è il tipo di ricerca per la quale è utile questo strumento? Ovviamente è una ricerca sul linguaggio, sulla trascrizione dei dialoghi psicoanalitici. Vorrei quindi fare alcune considerazioni sui diversi modi coi quali si può intendere una ricerca sul linguaggio in psicoanalisi. Le parole dette nel trattamento psicoanalitico (detto appunto "cura delle parole"), giocano indubbiamente un ruolo importante nel processo psicoanalitico, ma vi sono diversi modi coi quali possiamo trattare questi dati. Una prima possibilità non è tanto quella di isolare il linguaggio e trattarlo come un oggetto di studio tra gli altri, quanto di trattarlo tout court come unico oggetto di conoscenza della psicoanalisi. Questa posizione fu espressa chiaramente da alcuni ermeneuti, segnatamente da Ricoeur nel suo libro del 1965 [Dell'interpretazione. Saggio su Freud. Milano: Il Saggiatore, 1967]. Secondo questa posizione, la parola non viene concepita come espressione di una struttura sottostante, cioè come una parte dell'oggetto di conoscenza, ma come l'unico "fatto di osservazione" della psicoanalisi; non è la struttura psichica che genera il linguaggio, ma il linguaggio che crea significati nel momento in cui viene parlato. Questa operazione di Ricoeur, che ha dato poi l'avvio a tutta la corrente ermeneutica, una delle più importanti correnti oggi in psicoanalisi, non a caso fu definita da Grünbaum [I fondamenti della psicoanalisi (1984). Milano: Il Saggiatore, 1988], nel suo stile colorito e polemico, come una "versione troncata" [p. 43] della psicoanalisi, una "amputazione ontologica" [p. 44], una "chirurgia ideologica" [p. 47] (vedi la mia rubrica nel n. 50/1989 del Ruolo Terapeutico). Per Grünbaum non è vero, come invece ha affermato Ricoeur [1965, p. 275], che "tutta la verità della psicoanalisi è riassunta in fondo nella struttura narrativa dei fatti psicoanalitici" e che "le produzioni non verbali dell'analizzando sono escluse dal suo ambito", in quanto le verbalizzazioni del paziente costituiscono solo "il punto di partenza della teoria", e Freud ha cercato di spiegare anche molti fatti non verbalizzati, ad esempio non solo il racconto dei sogni, ma anche il fatto stesso che si sogni oppure no, certi comportamenti, ecc. Anche lo studio del soggetto grammaticale compiute da Lai [Conversazionalismo. Le straordinarie avventure del soggetto grammaticale. Torino: Bollati Boringhieri, 1993], che è presente in questa Tavola Rotonda, rimandano, a mio modo di vedere (ma sarebbe interessante sentire la sua opinione), a questa prospettiva ermeneutica, che come sappiamo è stata sollevata da tanti autori americani negli anni 1970 tra cui spiccano Schafer e Spence (tra l'altro è curiosa qui l'assonanza tra il concetto di "predicato" in Lai e il "linguaggio dell'azione" in Schafer - per una critica al percorso di ricerca di Lai, vedi la mia rubrica del n. 72/1996). Thomä & Kächele invece si collocano su una posizione completamente diversa, non ermeneutica, dove il linguaggio viene studiato all'interno di un progetto più ambizioso, o comunque diverso, e segnatamente nello spirito scientifico freudiano, nel quale il linguaggio è un aspetto di un oggetto di studio più vasto per il quale si possono applicare anche gli strumenti di ricerca scientifica delle scienze naturali. Lo studio del linguaggio non è lo studio della psicoterapia, che in quanto tale è un'altra cosa. Al linguaggio corrisponde, o esso è collegato, a una struttura sottostante, e preesistente, anche se si modifica con esso o che da esso è modificata. E' anche allo studio di questa struttura sottostante che si rivolge la ricerca in psicoterapia. E' questa quindi una precisa impostazione scientifica, nella quale il linguaggio parlato, assieme al linguaggio non verbale e ai comportamenti del paziente, è una delle modalità di espressione e di conoscenza. Vengono sì studiate le modificazioni diacroniche del linguaggio, ma anche altri aspetti del processo analitico, correlandoli tra loro, e con il risultato (outcome) della psicoterapia, che può essere misurato con vari metodi, anche puramente descrittivi. Ho detto che Thomä & Kächele non sono degli ermeneuti, ma non penso neppure che sia possibile dire che essi abbiano preso una posizione antiermeneutica in un modo semplice. Essi, di fronte a questo che è uno dei problemi più grossi oggi in psicoanalisi, quello della sfida ermeneutica, hanno preso una posizione complessa, che a mio parere necessita di essere chiarita per non creare fraintendimenti (per fare un esempio di come la loro posizione è stata intesa diversamente, J. Laplanche in un recente articolo sull'International Journal of Psycho-Analysis, ha affermato invece che Thomä & Kächele si collocano tra gli autori ermeneuti). Dedicherò quindi l'ultima parte del mio intervento a questo problema. Va ricordato che la motivazione intellettuale per la operazione di Ricoeur di limitare alla parola i "fatti" della psicoanalisi risiede in una precisa scelta filosofica, secondo la quale "i fatti della psicoanalisi non sono i comportamenti osservabili" [P. Ricoeur, Hermeneutics and the Human Sciences. New York: Cambridge University Press, 1981, p. 148], i quali sarebbero solo dominio della psicologia accademica; "la psicoanalisi ha a che fare con la realtà psichica e non con la realtà materiale" [p. 251]: come sappiamo, la intenzione degli ermeneuti è quella di sostenere due diversi tipi di scienza, regolati non da diversi campi di osservazione ma da diversi metodi, le scienze naturali e le scienze umane (altrimenti dette storiche o dello spirito), e mettono la psicoanalisi all'interno di queste ultime. Alle scienze naturali spetterebbe spiegare, alle scienze umane comprendere, e così via. Questa scelta ha grosse implicazioni, ad esempio riguardo alla questione mente/corpo, a quale metodologia di verifica scientifica debbano fare riferimento gli strumenti che utilizziamo quando facciamo ricerca sui vari aspetti del processo e del risultato in psicoanalisi. Per chiarire questa complessa problematica, vorrei fare due domande a Thomä, tra le tantissime che si potrebbero fare dopo gli stimoli avuti da questo ricchissimo libro, una riguardo alla sua posizione sul problema mente-copro e l'altra sul problema, ad esso strettamente collegato, delle due scienze, quelle naturali/nomotetiche e umane/idiografiche. Riguardo al problema mente/corpo, Thomä & Kächele si professano aderenti alla concezione dualista-interazionista [1985, p. 46]: simpatizzano per le posizioni di Popper & Eccles [L'Io e il suo cervello (1977). Roma: Armando, 1981], e rifiutano il monismo materialista in quanto sterile per la psicologia ("la radice della crisi si trova nella confusione tra biologia e psicologia, che a sua volta si deve al monismo materialista freudiano" [p. 46]). Per Thomä & Kächele la mente e il corpo sarebbero non una cosa sola, ma "oggetti completamente differenti" [pp. 46-47], nel senso che sono analizzabili con metodi di ricerca diversi. Questi due mondi avrebbero però delle "interazioni" tra di loro, nel senso che modificazioni dell'uno possono provocare modificazioni dell'altro (si pensi solo alla psicosomatica, problema tanto caro a Thomä). Ma il fatto stesso che esista una "interfaccia" tra i due mondi potrebbe implicare che questi due mondi non sono oggetti completamente differenti. Non sarebbe preferibile allora parlare di due (o più) unità funzionali coordinate tra loro con determinate regole, oppure di due aspetti complementari di una stessa entità, e quindi in ultima analisi di un monismo, anziché di un dualismo? Mi chiedo poi come sia possibile affermare che l'interazionismo "è l'unico [approccio] che dia un fondamento alla realizzazione di studi sulle correlazioni psicofisiologiche" [p. 46], quando viene ammesso che è "un'utopia usare gli esperimenti neurofisiologici per verificare teorie psicologiche. Si trascura il fatto che i metodi neurofisiologici e le teorie psicologiche si riferiscono ad oggetti completamente differenti. E' perciò privo di significato chiedersi se teorie psicologiche e neurofisiologiche sono compatibili o incompatibili" [pp. 46-47]. Riguardo invece alla questione delle due scienze, Thomä & Kächele [1985, cap. 10] risolvono questo annoso problema rifiutando la dicotomia scienze nomotetiche versus scienze idiografiche, ma per introdurre un'altra dicotomia, quella tra scienza pura versus scienza applicata. Questa nuova dicotomia non potrebbe riproporre, in modo camuffato, la dicotomia nomotetico/idiografico? (per una critica a questa dicotomia, vedi l'interessante lavoro di Holt del 1962 "Individualitą e generalizzazione nella psicologia della personalitą: una base teorica per la valutazione e la ricerca in personologia"). Inoltre, la differenza tra scienza pura e scienza applicata sarebbe dovuta a una normale e comprensibile difficoltà a tradurre in pratica una teoria pura o astratta per il fatto che nella pratica le variabili sono così tante e complesse che non si riesce a controllarle tutte e a prevedere i fenomeni (come ad esempio in psicologia), oppure di una differenza qualitativa nel senso che si tratta di cose veramente diverse?
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