L'autrice riprende l'annoso problema dell'autorità dell'analista,
cioè cosa rimane di questo concetto se si adotta una prospettiva
interpersonale o relazionale. Con questa delicata questione, che è
centrale perché mette bene in luce le debolezze di certe teorizzazioni
della psicoanalisi relazionale, si sono confrontati numerosi autori anche
sulle pagine di questa rivista: si veda ad esempio la recensione dell'articolo
di J. Greenberg Analytic
Authority and Analytic Restraint nel n. 1/1999 di Contemporary
Psychoanalysis,
segnalato su Psicoterapia e scienze
umane, 4/1999 p. 157, e quello di T.J.
Zeddies & F.C. Richardson Analytic
Authority in Historical and Critical Perspective: Beyond Objectivism and
Relativism nel n. 4/1999 di Contemporary Psychoanalysis, segnalato
su Psicoter. sci. um., 3/2000 p. 158-159. In questo secondo articolo Zeddies
e Richardson avevano criticato il tentativo di soluzione proposto da Greenberg,
che consisteva nel far poggiare la autorevolezza dell'analista non nella
sua supposta superiorità o conoscenza della "verità", ma
nel prestigio sociale che gli viene conferito dalla comunità sociale
allargata (e anche dalla rispettiva comunità professionale). Qui
Ruth Imber ripercorre tutte le posizioni esposte da vari autori, facendo
una accurata revisione della letteratura, e mostra come molti abbiano solo
spostato il problema senza affrontarlo, o compiuto degli equilibrismi.
Cita ad esempio Edgar Levenson che dice che l'analista "dovrebbe essere
un esperto ma non una autorità", scordando che spesso un esperto
è una specie di autorità o di figura comunque autorevole,
per cui un transfert suggestivo diventa inevitabile ed è una pia
illusione eliminarlo o fare finta che non esista. Inoltre vi è una
asimmetria ineliminabile nella relazione analitica derivata dal fatto che
il paziente chiede aiuto, per cui suppone che l'analista sia autorevole,
altrimenti non andrebbe da lui. Non va dimenticato poi che è il
paziente che vive l'analista come autorevole, indipendentemente dalle intenzioni
di quest'ultimo. E così via. Vengono citati anche autori tradizionali
o non appartenenti alla tradizione interpersonale, come Otto Kernberg,
che correttamente sottolineano i pericoli teorici e tecnici di rifiutare
il concetti di autorità analitica, neutralità tecnica, ecc.
(la questione della autorità dell'analista è stata affrontata
da vari autori, tra cui Kernberg, Hoffman, Brenner, Mclaughlin, e Schafer,
nel n. 1/1996 della "autorevole" rivista Psychoanalytic Quarterly). Nel
complesso questo articolo è critico verso i precedenti tentativi
di affrontare i problema, e, tramite alcuni esempi clinici, mostra anche
la marcata autorità esercitata inconsapevolmente sui pazienti proprio
da autori che dicono di non esercitarla. Nella conclusione viene citato
elogiativamente Irwin Hoffman (si veda la recensione del suo recente libro
Ritual
and Spontaneity in the Psychoanalytic Process: A Dialectical-Constructivist
View, pubblicata sul n. 4/1999 di Contemporary Psychoanalysis, segnalata
su Psicoter. sci. um., 3/2000 p. 159), che è un altro autore che
si è sforzato di studiare questo aspetto dell'analisi, e che sottolinea
gli inevitabili aspetti autorevoli dell'analista ma anche lo sforzo di
vederli in continua tensione "dialettica" con il ruolo spontaneo e paritario,
non ritualizzato, che pure esiste sempre e in modo parallelo nella stessa
relazione analitica. La soluzione proposta da Hoffman per uscire dall'impasse
creato dai circoli viziosi di molte teorizzazioni della psicoanalisi relazionale,
anche se interessante perché basata su concetti antropologici (in
particolare sul concetto di "rituale" di Victor Turner), mostra anch'essa
i suoi limiti e spesso pare una reiterazione di vecchie idee già
presenti nel movimento psicoanalitico. Il suo interesse mi sembra soprattutto
quello di mostrare il modo con cui certi autori concepivano la psicoanalisi,
o avevano imparato la psicoanalisi, prima di compiere la loro "revisione". |