Il Ruolo Terapeutico, 1988, 49: 48-52
Paolo Migone
Non vi è dubbio che stiamo vivendo un periodo di grande fermento nel campo della psicoanalisi, caratterizzato ad esempio da una crisi della metapsicologia o di alcuni suoi concetti centrali, e da una revisione della teoria della tecnica. Importanti contributi sono stati pubblicati a metà degli anni 1970 (tra i molti altri, si possono ricordare qui ad esempio tre testi, tutti coincidentalmente usciti nel 1976, che hanno allargato il dibattito e stimolato l'interesse di molti analisti: gli scritti di George Klein Psychoanalytic Theory: An Exploration of Essentials [New York: Int. Univ. Press, 1976 - tradotto da Raffello Cortina nel 1996], il libro curato da Gill & Holzman Psychology versus Metapsychology scritto in memoria dello stesso G. Klein [New York: Int. Univ. Press, 1976], e quello di Schafer A New Language for Psychoanalysis [New Haven, CT: Yale Univ. Press, 1976]). Uno dei concetti che sono stati sotto il fuoco della critica è proprio quello di transfert; basti qui ricordare la sarcastica definizione che ne diede Schafer (1976), quella di "macchina del tempo" (time machine), secondo la quale il transfert, così come può venir concepito da una certa impostazione ortodossa, sarebbe una macchina da film di fantascienza che fa viaggiare il paziente attraverso il tempo, facendolo uscire dal contesto della situazione analitica e rivivere l'infanzia, per poi farlo ritornare di nuovo al presente magari per elaborare quelle esperienze. Il transfert in questo caso sarebbe una ripetizione esatta del passato, resa possibile dalla "magia" della psicoanalisi. Le cose ovviamente non possono essere concettualizzate in questi termini. Si deve ritenere invece che il comportamento del paziente di fronte all'analista sia la risultante di tutte le sue esperienze passate accumulate negli anni, sia quelle infantili che quelle adulte, laddove queste ultime si sono sovrapposte a quelle infantili modificando permanentemente il significato che esse avevano, e quindi rendendo impossibile la ripetizione pura del passato. Ciò che il paziente ricorda o rivive nella situazione analitica non è più il passato, ma quello che rimane di esso dopo le modificazioni apportate dalle esperienze successive, le quali possono anche essere in certi casi ancor più importanti. Ma, e questo è l'aspetto che è stato maggiormente studiato da vari autori critici (tra i quali per esempio anche Robert Langs, come hanno potuto notare coloro che sono venuti al seminario da lui tenuto il 4-5-88 al Ruolo Terapeutico - su Langs, vedi la mia rubrica del n. 45/1987), il comportamento del paziente in analisi può essere la reazione non tanto al suo passato remoto, e neanche al suo passato recente, quanto al presente, rappresentato dagli interventi dell'analista nell'hic et nunc della seduta. In altre parole il paziente non ripeterebbe le sue reazioni al comportamento delle figure genitoriali, ma reagirebbe, in modo più o meno inconscio, al comportamento del suo analista. Così nel transfert l'enfasi non sarebbe più posta nel concetto di "distorsione" del presente a causa dei ricordi del passato, quanto nel concetto di "percezione selettiva" del presente alla luce del passato. Ma come si è arrivati a fare queste considerazioni, e qual è la loro rilevanza per la teoria della tecnica? Nel ripercorrere brevemente alcune delle tappe del cammino che ci ha portati fin qui, può essere interessante riandare anche ai primissimi passi di questa grande scoperta fatta da Freud. Un fenomeno denominato "transfert" fu descritto per la prima volta da Freud in Studi sull'isteria [Breuer e Freud, 1892-95. In Freud Opere, 1: 175-439. Torino: Boringhieri, 1967]. Esso fu visto come una fonte di resistenza al processo analitico, basata su un "falso nesso" tra la "persona del medico e le rappresentazioni penose che emergono dal contenuto dell'analisi" (p. 437). Dieci anni dopo Freud (1901) nel caso Dora [Frammento di un'analisi di isteria. Freud Opere, 4: 301-402. Torino: Boringhieri, 1970] parlò del transfert come di riedizioni, copie degli impulsi e delle fantasie che devono essere risvegliati e resi coscienti durante il processo dell'analisi, in cui però - e questo è il loro carattere peculiare - a una persona della storia precedente viene sostituita la persona del medico (p. 396 sg.). ...vi sono transfert il cui contenuto non differisce in nulla da quello del modello, se si eccettua la sostituzione (p. 397). Inoltre, mentre spesso i transfert si presentano come ristampe o riedizioni del passato, altre volte sono compiuti con più arte... e sono spesso capaci di divenire consci appoggiandosi su una qualche particolarità reale, abilmente utilizzata, della persona del medico o del suo ambiente. In questo caso... non si tratta più di ristampe ma di rifacimenti (p. 397). Freud quindi perfezionò il concetto di transfert negli anni seguenti, lavorando anche su altri casi clinici, ma la scoperta vera e propria fu fatta da lui quando Breuer lavorava sul caso di Anna O., la famosa paziente che, potremmo dire, segnò la nascita della psicoanalisi. Come è noto, Breuer si trovò coinvolto in un forte attaccamento erotico da parte di questa paziente, il che lo spinse in definitiva a fuggire da lei temendo di non poter gestire la situazione. Vari autori hanno studiato la scoperta del transfert da parte di Freud, andando a rivedere i dettagli della nascita di questo concetto; due contributi in particolare possono essere menzionati qui, entrambi pubblicati sull'International Journal negli anni '60, quello di Szasz [The concept of transference. Int. J. Psychoanal., 1963, 44: 432-443] e quello di Chertok [The discovery of transference: toward an epistemological interpretation. Int. J. Psychoanal., 1968, 49: 560-576]. Questi autori per esempio osservarono che forse non fu casuale il fatto che Freud scoprì per la prima volta il transfert in una paziente di Breuer, e non sua, il che gli permise di proteggersi dai pericoli che in questi casi gli analisti corrono, e di non fuggire spaventato come fece Breuer. Il concetto di transfert nacque quindi in questa situazione molto ansiogena, e secondo questi autori è possibile che esso sia servito anche a scopo difensivo, per negare la responsabilità di aver provocato una reazione erotica o affettiva da parte di questa paziente e del proprio coinvolgimento emotivo con lei (questa problematica negli anni recenti è stata risollevata e volgarizzata dal caso Masson [Assalto alla verità. Milano: Mondadori, 1984; cfr. Migone P., Cronache psicoanalitiche: il caso Masson. Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, 4: 36-65; ho raccontato la storia dello scandalo Masson anche nelle tre rubriche (89, 90 e 91) del 2002 del Ruolo Terapeutico]. Può non essere irrilevante qui ricordare che le sedute con questa paziente si svolgevano a domicilio, nella sua camera da letto, e la tecnica prevedeva anche un certo tipo di induzione ipnotica e massaggi corporei. La nozione di transfert insomma, secondo la quale non è il terapeuta il responsabile della seduzione, ma un altro (il padre della paziente), avrebbe una funzione rassicurante per il terapeuta stesso, il quale in questo modo nella situazione analitica cessa di essere una "persona", ma diventa un simbolo di qualcun altro, e quindi invulnerabile. Divenne famoso il commento che fece Freud a proposito della scoperta del transfert: "Uno deve essere nei panni di Breuer per esperimentare la difficile situazione in cui Breuer stesso si trovò coinvolto con Anna O.". Quello quindi che Szasz e Chertok mostrarono, e come loro vari altri autori, è la possibile natura difensiva che il transfert può assumere per l'analista. Questa osservazione, che ad alcuni può sembrare meno densa di implicazioni di quante ne abbia, è in realtà solo un aspetto dei molti cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi tempi, e più o meno contemporaneamente, nella teoria e nella pratica psicoanalitiche. Infatti, ritenere il transfert non più una pura e semplice ripetizione del passato, ma in ogni caso una sorta di amalgama tra passato e presente, relativizza i classici ruoli dei due partners della relazione analitica, laddove per esempio l'analista non è più un osservatore neutrale, ma un partecipante-osservatore. Questa definizione tra l'altro, quella dell'analista come partecipante-osservatore, è la definizione che Sullivan diede del terapeuta, e questo ci dà un'idea dell'influenza che la scuola della psicoanalisi "interpersonale" americana (il cui principale esponente fu appunto Harry Stack Sullivan) ebbe sulla psicoanalisi ortodossa; o meglio, ci mostra come un diverso modo di pensare e concettualizzare il transfert e la relazione analitica si fece strada nella storia della psicoanalisi prima attraverso il pensiero di autori ai margini del movimento ufficiale, o considerati dissidenti, per poi essere assorbito alcuni decenni più tardi dal pensiero psicoanalitico ufficiale (questi analisi eterodossi tra l'altro lavoravano con situazioni cliniche di confine - Sullivan lavorava con gli psicotici - per cui mettevano alla prova determinati costrutti teorici con un materiale clinico diverso, e questo era anche quello che permetteva loro di fare dei passi avanti in campo teorico; altri esempi storici sono stati quelli della Klein con i bambini, oppure del lavoro di vari analisti con i borderline, i narcisisti e in generale i disturbi gravi di personalità). Nella storia della psicoanalisi era sempre stato teorizzato che per far ripetere al paziente il suo passato in analisi, cioè per far emergere il transfert, era necessario che l'analista si mantenesse neutrale, e fornisse un setting stabile nel tempo in modo da non "inquinare la purezza" dei derivati transferali. Al paziente veniva richiesta solo l'osservazione della regola fondamentale, o "regola aurea", cioè di fare le associazioni libere (le quali però, come Freud già intuì, in un certo qual modo contraddicendosi, "libere non sono" dagli stimoli che provengono dalla situazione analitica reale). Fu questo tipo di teorizzazione quella che portò allo stereotipo degli psicoanalisti come persone abbastanza silenziose (a volte estremamente silenziose), quasi amimiche, con un atteggiamento impersonale, vestite magari sempre in grigio o comunque in modo anonimo, tale da non far trasparire niente di sè, nascoste dietro al lettino, ecc. (fra le tante posizioni di questo tipo, si pensi solo a un Meltzer, 1967 [Il processo psicoanalitico. Roma: Armando, 1971, p. 19], quando, affermando che l'analisi è una "ricerca della verità", arrivò addirittura a prescrivere all'analista "stili di vita semplici e abbigliamenti uniformi"!). E furono questi stessi tipi di comportamenti quelli che vennero poi considerati da alcuni autori critici come possibilmente difensivi nei confronti dell'emotività della situazione analitica e del coinvolgimento col paziente, particolarmente nel caso di analisti insicuri o privi di una forte personalità. E' in questo contesto che va inserita la recente "scoperta" della grande umanità di Freud coi suoi pazienti, della sua disinvoltura tecnica, ecc., come emerge adesso dalla pubblicazione dei resoconti di molti suoi ex analizzandi; queste cose si sapevano da sempre, ma solo adesso riscuotono un interesse generale. Non solo, ma anche tutta la tematica della rivalutazione dell'importanza dell'empatia e del calore umano da parte dell'analista, cioè in pratica la crescita del movimento kohutiano - non a caso avvenuta negli Stati Uniti dove più forte era la tradizione ortodossa - può essere considerata sociologicamente anche come una reazione all'atteggiamento rigido e impersonale degli analisti classici, e la Psicologia del Sé di Kohut può essere vista come una cura per i danni iatrogeni della psicoanalisi classica, che con particolari tipi di pazienti rappresentava una ferita narcisistica cronica. Quindi, come si diceva, la psicoanalisi classica era ben consapevole dei pericoli di inquinare il setting analitico con un atteggiamento non neutrale da parte dell'analista, e per questo imponeva questo tipo di tecnica "rigida", tesa ad escludere ogni tipo di interferenza "del presente sul passato". Ma è proprio questo il punto: il fatto stesso che gli analisti classici erano veramente convinti che il passato potesse essere rivissuto in modo più o meno puro, come attraverso una macchina del tempo, imponeva loro di minimizzare l'influenza dell'analista sul paziente, per non "inquinare le prove" del transfert. Non si dimentichi anche - e qui si vedono i collegamenti con altri aspetti della teoria psicoanalitica - che allora si credeva ancora che il nucleo del processo psicoanalitico fosse l'interpretazione, cioè che la terapia avvenisse primariamente attraverso l'insight cognitivo, più che con altri aspetti quali il rapporto emozionale, le funzioni educative, identificatorie, di contenimento o di holding del setting; e si credeva ancora che l'interpretazione, per funzionare, dovesse essere "vera" (è su questo aspetto che più tardi giustamente Grünbaum [The Foundations of Psyhoanalysis. A Philosophical Critique. Berkeley, CA: Univ. of California Press, 1984; traduzione italiana: I fondamenti della psicoanalisi. Milano: Il Saggiatore, 1988] con il freudiano tally argument decise di lanciare una sfida alla psicoanalisi, sfida alla quale ancora nessuno è stato capace di rispondere in modo serio - vedi la mia rubrica del Ruolo Terapeutico, 50/1989). In altre parole, questa teorizzazione sulla neutralità analitica da parte della psicoanalisi classica tradiva una precisa teoria del transfert, la quale fu appunto quella che entrò in crisi. Secondo questa teorizzazione era possibile essere neutrali, solo osservatori e non partecipanti-osservatori, era cioè possibile ridurre al minimo o annullare le influenze dell'interazione reale nel manifestarsi del transfert. Secondo invece una più moderna concezione della relazione analitica, si assume che il transfert non è mai una pura e semplice ripetizione del passato e una distorsione del presente, ma che è una reazione al presente (anche se selettivamente distorta alla luce del passato); si può quindi accettare fino in fondo la nostra partecipazione all'interazione col paziente, senza preoccuparcene più di tanto, poiché essa è inevitabile, e anzi dobbiamo partire proprio da essa per comprendere il comportamento del paziente, che è sempre un amalgama di transfert e nontransfert, passato e presente. Da una parte non esiste più il transfert in senso classico, e dall'altra nello stesso tempo tutto il comportamento del paziente può essere visto come "transfert", cioè come una risposta al presente alla luce del passato, come è per qualunque comportamento. Ciò non significa svalutare l'importanza delle interpretazioni genetiche o extratransferali, quanto sostenere rispetto ad esse la priorità delle interpretazioni di transfert nell'hic et nunc della seduta, cioè a partire dagli stimoli che il terapeuta dà al paziente nell'interazione immediata all'interno del setting, stimoli che sono il punto di partenza per l'elaborazione transferale del passato (un po' come i "residui diurni" erano lo stimolo per la costruzione del sogno nella teoria freudiana). Inoltre questo cambiamento comporta che si abbandoni l'idea secondo la quale la realtà della situazione analitica è definita oggettivamente dall'analista, e che si riconosca che essa è definita dal modo con cui la percepisce il paziente, o meglio dalla progressiva chiarificazione tra entrambi paziente e analista. Il significato della realtà interpersonale quindi in questo modo viene relativizzato, non è più assoluto. Naturalmente questa diversa concezione del transfert è andata avanti parallelamente a una revisione della metapsicologia, in cui per esempio si è abbandonata la teoria delle pulsioni, le quali, secondo il pensiero freudiano, si esprimevano nel transfert tramite appunto i "derivati pulsionali", che erano relativamente indipendenti dalla realtà esterna. Volendo usare la terminologia introdotta da Hoffman [Il paziente come interprete dell'esperienza dell'analista (1983). Psicoterapia e Scienze Umane, 1995, XXIX, 1: 5-39], in questo modo si è passati da una concezione "asociale" a una concezione "sociale" della situazione analitica. A ben vedere, questo nuovo modo di concepire il transfert può avere varie implicazioni pratiche. Già da un punto di vista per esempio comportamentale, si noterà che un analista che lavora in questa prospettiva "relazionale" o "interpersonale" non ha più quell'atteggiamento apparentemente neutrale di cui si parlava prima a proposito della tecnica classica. Egli interagisce più liberamente col paziente, ben consapevole che un suo eventuale tentativo di nascondere o negare il suo impatto emotivo può solo portare a renderlo implicito, così da permettergli di esercitare i suoi effetti senza accorgersene. L'analista non funge da specchio per il paziente, o almeno egli regge uno specchio di fronte al paziente tanto quanto il paziente stesso ne regge un altro di fronte all'analista, come Margaret Little disse già nel 1951 [Il controtransfert e la risposta del paziente a esso. In: C. Alberella & M. Donadio, a cura di, Il controtransfert. Napoli: Liguori, 1986, pp. 134-148. Anche in R. Langs, editor, Classics in Psychoanalytic Technique. New York: Aronson, 1981, pp. 143-151]. Egli inoltre non ripete al paziente la frase di rito con la quale lo invita a fare le libere associazioni, e non solo perché, come molti autori hanno mostrato, questa richiesta è un messaggio paradossale (e come tale frustrante per il paziente, che se non riesce ad eseguire questo compito può essere portato a vivere una condizione di inferiorità o inadeguatezza nei confronti dell'analista), ma anche perché a livello interazionale il messaggio trasmesso può essere un altro: ad esempio può significare che l'analista è solo un osservatore che non partecipa alla relazione, e che il paziente, associando liberamente, fa emergere il suo passato in modo incontaminato (riguardo alla regola tecnica delle libere associazioni, Grünbaum [1984, cit.] tra l'altro ha mostrato molto acutamente anche quanto sia incoerente il mantenimento di questa regola da parte di quegli analisti che affermano di aderire alla posizione ermeneutica). Inoltre egli smitizza l'uso del lettino, non attribuendo ad esso un significato universale, o comunque non ritenendolo indispensabile per lo sviluppo del processo analitico. In questa prospettiva, volendo usare delle immagini suggestive, si può affermare che quegli analisti che mantengono uno stretto legame tra la pratica della psicoanalisi e l'uso del lettino si comportano come se questo strumento dell'armamentario storico della psicoanalisi fosse un feticcio, o un "altare sacro della religione psicoanalitica" sul quale vengono "immolati" i pazienti per evocare "lo spirito del loro passato". L'analista infatti non ha bisogno di nascondersi dalla vista del paziente, magari per celare qualcosa di sé, anzi, sono proprio le sue reazioni nei confronti del paziente (bisogno di guardare l'orologio, sbadigli, leggeri sorrisi, mimica del viso, ecc.) quelle che costituiscono il materiale di una parte importante del lavoro analitico, che ci permette di conoscere, attraverso quello che chiamiamo controtransfert, alcune importanti qualità della relazione analitica. La preferenza da parte di un analista a nascondere le proprie reazioni comportamentali od emotive può tradire il fatto che egli se ne vergogna, e quindi che aderisce a una teoria secondo la quale il controtransfert è un "errore da correggere" che deriva dal proprio passato, e non un prodotto interazionale. Inoltre la posizione vis-à-vis, permettendo il contatto visivo, in certi casi può facilitare lo sviluppo di quel "rapporto emozionale" la cui importanza rischia di essere sminuita se si privilegia lo strumento dell'interpretazione cognitiva come modalità privilegiata della cura psicoanalitica. Inutile dire quanto sia importante trasmettere al paziente la disponibilità ad essere aperti a conoscere le implicazioni delle nostre emozioni e a rispettarle. La rivalutazione dell'importanza del controtransfert come strumento di conoscenza dell'inconscio del paziente è incominciata nella letteratura psicoanalitica ufficiale negli anni 1950 [per intenderci, dall'articolo di Paula Heimann del 1950, ora tradotto: Sul controtransfert. In C. Alberella & M. Donadio, a cura di, Il controtransfert. Napoli: Liguori, 1986, pp. 81-86], e non è possibile qui discuterla ulteriormente; allo stesso modo, non è possibile approfondire qui le importanti intuizioni cliniche che fanno capo al concetto di identificazione proiettiva [Ogden T.H., Projective Identification and Psychotherapeutic Technique. New York: Aronson, 1982; Sandler J., editor, Projection, Identification, Projective Identification. Madison, CT: Int. Univ. Press, 1988, trad. it.: Proiezione, identificazione, identificazione proiettiva. Torino: Bollati Boringhieri, 1988; vedi il mio articolo sul n. 49/1988 del Ruolo Terapeutico]. Basti dire che questi sono altri esempi dei cambiamenti avvenuti più o meno contemporaneamente anche in altri aspetti della teoria psicoanalitica, di cui si accennava prima. La critica prima fatta all'uso del lettino comunque non deve portare a credere che esso in quanto tale abbia sempre questi significati, ma essendo il lettino stato introdotto all'interno di un determinato contesto teorico, si è voluto evidenziare il rischio che esso sia funzionale a una teoria ormai datata. Ovviamente non vi è differenza tra lettino e sedia (anch'essa può essere usata a scopo difensivo, sia da paziente che da analista), trattandosi di un problema culturale, nel senso che le caratteristiche del setting hanno significati diversi da paziente a paziente, da analista ad analista, e a seconda delle epoche storiche. Quello che è importante è che questo modo di vedere permette di allargare l'uso della tecnica analitica a una gamma più vasta di situazioni di quanto abitualmente si ritenga possibile, sia per quanto riguarda la frequenza delle sedute, l'uso del divano o della sedia, il tipo di pazienti, ecc., eliminando finalmente la differenza tra la "psicoanalisi" vera e propria e quell'altra tecnica buffamente definita "psicoterapia ad orientamento psicoanalitico" (la cui identità teorica come è noto è stata legittimata da ragioni anche sociologiche, cioè di spartizione del potere istituzionale). Come forse il lettore avrà notato, uno degli autori al quale implicitamente ho fatto riferimento e che negli anni recenti ha fatto questo tipo di revisione teorica dell'analisi del transfert è Merton Gill, una figura significativa nel panorama nordamericano, il quale ha dato vari contributi che restano come pietre miliari nella storia della teoria psicoanalitica in questi ultimi decenni. Il primo volume della monografia sull'analisi del transfert di Gill del 1982 è ora disponibile anche in italiano [Teoria e tecnica dell'analisi del transfert. Roma: Astrolabio, 1985], per cui il lettore motivato può approfondire lo studio di questo argomento [vedi anche l'articolo di Gill del 1984 "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione", e il dibattito in rete che ne è scaturito; vedi anche il cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica, Milano: Franco Angeli, 1995]. E' curioso qui notare come sia Gill che Schafer, Holt e G. Klein, i principali allievi del grande Psicologo dell'Io David Rapaport [Il modello concettuale della psicoanalisi. Scritti 1942-1960. Milano: Feltrinelli, 1977], si siano allontanati in seguito dall'ortodossia prendendo strade molto diverse e innovative. Un altro autore che si è a lungo occupato della revisione della teoria del transfert, e che qui voglio citare anche perché mi sono personalmente interessato del suo lavoro, è Robert Langs [Follia e cura (1985). Torino: Boringhieri, 1988. Vedi anche i lavori di Trombi in Psicoterapia e Scienze Umane, 1987, 3: 55-93, e la mia rubrica nel Ruolo Terapeutico, 1987, 45: 39-42]. Le posizioni di Langs, simili clinicamente per certi versi a quelle di Gill, sono ancor più radicali, poiché sembra che portino tendenzialmente ad una abolizione del transfert, deenfatizzando il passato rispetto al presente, ma in questo modo rischiando di ripetere l'errore degli ortodossi in modo uguale e contrario. L'importanza che però Langs, con le sue notevoli intuizioni cliniche, dà a fattori curativi quali l'identificazione del paziente nell'analista permette di rivalutare la funzione profondamente terapeutica di quest'ultimo, basata su un atteggiamento di contenimento, di fermezza, e di correttezza nel rapporto col paziente. Non mi è possibile qui approfondire ulteriormente altri temi connessi con queste problematiche. Il transfert, qualunque suo aspetto venga enfatizzato, rimane uno dei più affascinanti capitoli della psicoanalisi. George Klein (1976, cit.) disse che la tendenza dell'uomo a ripetere esperienze passate, e a rivolgere in attive esperienze passive, si può considerare come una delle più importanti scoperte della psicologia, densa di implicazioni per la comprensione del funzionamento della mente umana e per la teoria della motivazione. La nostra capacità di modificare questo comportamento nell'uomo rimane tuttora una delle sfide più grandi poste alla psicoterapia.
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